Centro Ghélawé in Africa

Dal 07 al 30 dicembre 2006

di Carlo Camarotto

Il forno a legna
Foto di squadra
Adamà e Moussà
La banda dei Peul
Montone in viaggio

Tappa numero 7, Dal 27 al 30 dicembre 2006

Ultimi giorni
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Mercoledì 27 dicembre

Vengo svegliato nel cuore della notte da un sonoro trambusto proveniente dalla stanza adiacente, dove dormono Peppino, Simone, Doriana e Vincenzo. Voci impastate cercano di farsi largo nella nebbia che ho in testa, e mi pare di sentire più volte pronunciare la parola “topo”, ma sono troppo assonnato per dargli una qualche importanza e ricado addormentato dopo un attimo, dimenticando il tutto. Quando mi alzo al mattino, ancora un po’ assonnato ma con un certo appetito che mi anima il corpo, noto un grosso fagotto sul sedile posteriore di Carolina. Avvicinatomi, scopro all’estremità del fagotto la testa rasata di Vincenzo: ha deciso di concludere lì la sua turbolenta notte, dopo che un topino, sgattaiolato all’interno della casetta, gli aveva morso un dito scambiandolo per un succulento salsicciotto. Come mi racconteranno i suoi compagni di stanza, il buon Vinci si era talmente spaventato da non volerne proprio sapere di tornare a dormire a livello del terreno.

È così che inizia la nuova giornata di lavoro dopo le festività natalizie, con grasse risate ai danni dello sfortunato Vincenzo. Dopo la solita abbondante colazione a base di pane e marmellata, ognuno ha i suoi compiti da portare a termine: c’è da finire il forno a legna, abbeverare le piante, scavare ulteriori buche per accogliere nuove piantine, controllare i recinti, rifinire l’Empire Cess Building, costruire mattone su mattone il magazzino con il piano interrato, rivedere la raccolta differenziata dei rifiuti e tante altre piccole faccende quotidiane che ci accompagnano giorno dopo giorno ormai da tre settimane. I gesti, gli sguardi, le parole, i sorrisi, sono ormai inseriti naturalmente nelle nostre esistenze, facendoci sentire un tutt’uno indistinto con questa terra, con questa gente, con questa avventura. Fermandomi un attimo e pensandoci bene, mi accorgo che non distinguo più il colore della pelle di chi mi sta intorno. Per realizzare se chi mi sta di fronte è bianco oppure nero devo mettere in atto un pensiero razionale, non è più un’osservazione istintiva. Quando realizzo l’esistenza di questo piccolo ma significativo cambiamento, sento di essere riuscito a calarmi in modo completo in questa esperienza, alleggerito dal fardello di ogni più piccolo pregiudizio. Mi chiedo se lo stesso valga anche per uno solo dei nostri nuovi amici africani: sarebbe una bella base da cui far partire il progetto.

Giovedì 28 dicembre

Ultimo giorno intero al Centro. Domani mattina partiremo verso la capitale per prendere l’aereo a tarda notte. Siamo quasi alla fine del viaggio, ma l’atmosfera generale, ancora gaia e spensierata, non pare esserne turbata. C’è ancora tanta voglia di vivere l’attimo, di godersi pienamente questa nuova giornata africana. E così in men che non si dica organizziamo una partita di calcio contro una rappresentativa del villaggio. Centro Ghelawe contro Lotò.

Era da giorni che se ne parlava, in realtà così tanto per fare due chiacchiere. Ma a forza di parlarne la voce si è diffusa ed i giovani aitanti che sono apparsi come d’incanto nei pressi del Centro poco dopo pranzo sono lì a chiederci di soddisfare la loro voglia di giocare. Appena al di là della collina c’è un campo, ci dicono, e così saltiamo entusiasti tutti insieme su Carolina inneggiando qualche coro da stadio per immedesimarci meglio nella parte, festosi e chiassosi come non mai. I bambini che di solito animano il Centro ci precedono correndo a piedi o su sgangherate biciclette, guidandoci tra i sentieri del villaggio, mentre i più grandi che ci hanno sfidato ci attendono già al campo, con i piedi nudi o protetti da scarpe da ginnastica slabbrate e piene di buchi o sandali di plastica (quelli che si usavano al mare da noi qualche decina di anni fa). Il campo in realtà è una pietraia piatta invasa da erbacce secche, senza il segno di una porta o di una linea. Per creare il campo da gioco si da fuoco alle erbacce e lo si controlla fino a creare un rettangolo più o meno preciso, poi quattro cumuli di sassi delimiteranno le porte.

Scendiamo in campo con una formazione degna di essere menzionata: Issà in porta pronto a ipnotizzare gli attaccanti avversari con il suo sguardo vacuo, difesa a quattro con Dario e Vincenzo al centro con il compito di guidare ai lati i meno esperti Gabriel e Sié, folto centrocampo a quattro con Peppino e Samì sulle fasce pronti ad incenerire gli avversari con i loro ripetuti scatti ed io e Simone a dare sostanza e chili di troppo in mezzo al campo, Doriana e Teremì in attacco pronte al gol di rapina. Una formazione d’altri tempi che unisce il tipico talento italiano alla rude forza dell’Africa più nera, in grado di annichilire gli avversari per i primi dieci minuti di gioco con un fraseggio rapido e preciso, fino al meritato vantaggio. Poi il campo al limite dell’impraticabile, il fumo nel corpo di troppi dei nostri ed il caldo africano complicano le cose, mandando a rotoli un’intesa che sembra perfetta. Tecnicamente superiori ma inferiori nella prestanza fisica, subiamo sempre più il loro gioco, ritrovandoci rintanati in un fortino che non può durare a lungo. Anche perché Issà ci mette del suo prendendo un paio di gol che hanno del clamoroso. Kevin “lo sdentato” lì davanti, poi, è un vero fenomeno. Appena Dario comincia a boccheggiare, rallentando la sua corsa, ci infila tre dei quattro gol con cui i nostri avversari chiudono definitivamente la partita. A nulla serve lo spirito indomito di Peppino, l’ultimo a dichiararsi sconfitto. Dopo un’ora di gioco siamo costretti ad alzare bandiera bianca: Centro Ghelawe 1 – Lotò 4. Ma ci rimane il tempo di festeggiare lo stesso la felice partita con tutti quanti sono venuti a guardarci, tra foto, sorrisi e strette di mano. Se volete fare un po’ di pubblicità per un progetto in Africa, infatti, organizzate una partita di calcio. Il pubblico arriverà a frotte grazie al potere del pallone.

L’ultimo tramonto al Centro lo contemplo seduto su una delle tanto ambite sdraio, le gambe piacevolmente stanche e nessuna escoriazione di rilievo sulle ginocchia ed i gomiti. Questo abituale momento di pace mi mancherà forse più di ogni altra cosa. Un momento di totale benessere e pace con se stessi. Giusta conclusione di un giorno ben vissuto. Bonne nuit.

Venerdì 29 dicembre

Ci svegliamo presto, che il sole è appena sorto e l’aria è ancora fresca e frizzante. Oltre ai nostri amici del Centro, ci osservano fare le valige anche cinque giovani peul che vivono nelle capanne del villaggio a noi più vicine. Tra loro c’è Adamà, forse il bambino per cui provo la maggiore simpatia tra i tanti che ci hanno fatto compagnia in queste ultime settimane. I suoi modi sempre educati e lo sguardo timido mi sono entrati da tempo nel cuore. Sono contento che sia lì a salutarmi. Ad ognuno dei ragazzi lasciamo qualcosa in regalo, dalla maglietta alle scarpe, dall’asciugamano ai pantaloni. Le valigie risultano così particolarmente leggere per il viaggio di ritorno.

Anche se l’aereo da Ouaga lo dobbiamo prendere solo io, Simone e Peppino, partiamo tutti insieme verso la capitale, lasciando nuovamente il Centro nelle mani di Gabriel e degli altri giovani amici africani. Doriana e Vincenzo torneranno a casa per l’epifania, mentre Dario ha in mente di starsene ancora un altro paio di mesi a guidare i lavori in loco.

I saluti avvengano quasi naturalmente, senza un’eccessiva commozione. Forse è fin chiaro a tutti che non è un addio ma solo un lungo arrivederci. È così che vedo il Centro scomparire dal finestrino posteriore di Carolina che già sono lì a pensare a Boromo, una cittadina sulla strada per la capitale dove è possibile osservare il passaggio degli elefanti. Il periodo dovrebbe essere anche quello ottimale e l’occasione pare essere di quelle uniche. Ma non ho fatto i conti con l’Africa, la cui indolenza non solo ti circonda in ogni dove, ma alle volte ti penetra fino nelle ossa rendendo te stesso indolente. A Boromo ci arriviamo, ma passiamo oltre tre ore seduti ad una spartana tavola calda sulla strada a mangiare piatti di fagioli sempre più piccanti e bere birra sempre meno fredda. Quando finiamo di pranzare è ormai troppo tardi per andare “a caccia” di elefanti. Non ci rimane che puntare dritti alla Capitale, dove giungiamo quando il sole è già in procinto di lasciarsi cadere oltre l’orizzonte. Abbiamo il tempo di trovare un posto da dormire per chi rimane in Africa e per fare un breve giro a piedi nelle strade ricche di polvere e smog del centro città. La cena ce la gustiamo nei pressi dell’aeroporto, in un ristorante conosciuto da Dario che serve abbondanti piatti di pesce. La pietanza è scelta dal cliente dopo un’accurata valutazione presso le bancarelle poste all’ingresso del recinto sterrato che costituisce il ristorante. I tavoli sono illuminati dalla luce stentata di un paio di lampioni stradali, uno dei quali dal funzionamento intermittente. Il vino bianco scelto come accompagnamento al pesce non è affatto male. Lo lasciamo scorrere con gioia, concedendoci un lusso finora negato.

Al momento di salutarci sulla soglia dell’area d’imbarco, lo zaino caricato sulle spalle, sento d’un tratto il peso di questa esperienza. Sono conscio di aver vissuto un magnifico approccio al mondo africano più vero, più intenso, ma sono altrettanto sicuro che mi è stato concesso solo un rapido contatto, una fugace visione inquinata da una un rapporto umano non paritario, sfalsato. Ho svelato solo piccole porzioni di questo mondo nascosto, perché questa è l’Africa per noi europei. Un mondo del quale conosciamo poco o nulla, solo qualche eco lontano, spesso marginale e inutile. Per qualche suggestivo attimo ho intravisto la vera Africa, un battito di ciglia sufficiente a farmi comprendere che non la conosco e non la conoscerò mai finché non avrò vissuto altre esperienze come quella che si sta ora concludendo. Dovrò tornare tra queste zolle arse dal sole per continuare ciò che ho iniziato, prima di tutto un cammino proteso alla comprensione di un universo affascinante.