Tappa numero 7, Dal 27 al 30 dicembre 2006
Mercoledì 27 dicembre
Vengo svegliato nel cuore
della notte da un sonoro trambusto proveniente dalla stanza adiacente,
dove
dormono Peppino, Simone, Doriana e Vincenzo. Voci impastate cercano di
farsi
largo nella nebbia che ho in testa, e mi pare di sentire più
volte pronunciare
la parola “topo”, ma sono troppo assonnato per
dargli una qualche importanza e
ricado addormentato dopo un attimo, dimenticando il tutto. Quando mi
alzo al
mattino, ancora un po’ assonnato ma con un certo appetito che
mi anima il corpo,
noto un grosso fagotto sul sedile posteriore di Carolina. Avvicinatomi,
scopro
all’estremità del fagotto la testa rasata di
Vincenzo: ha deciso di concludere
lì la sua turbolenta notte, dopo che un topino, sgattaiolato
all’interno della
casetta, gli aveva morso un dito scambiandolo per un succulento
salsicciotto.
Come mi racconteranno i suoi compagni di stanza, il buon Vinci si era
talmente
spaventato da non volerne proprio sapere di tornare a dormire a livello
del
terreno.
È
così che inizia la nuova giornata di lavoro dopo le
festività
natalizie, con grasse risate ai danni dello sfortunato Vincenzo. Dopo
la solita
abbondante colazione a base di pane e marmellata, ognuno ha i suoi
compiti da
portare a termine: c’è da finire il forno a legna,
abbeverare le piante,
scavare ulteriori buche per accogliere nuove piantine, controllare i
recinti,
rifinire l’Empire Cess Building, costruire
mattone su mattone il
magazzino con il piano interrato, rivedere la raccolta differenziata
dei
rifiuti e tante altre piccole faccende quotidiane che ci accompagnano
giorno
dopo giorno ormai da tre settimane. I gesti, gli sguardi, le parole, i
sorrisi,
sono ormai inseriti naturalmente nelle nostre esistenze, facendoci
sentire un
tutt’uno indistinto con questa terra, con questa gente, con
questa avventura.
Fermandomi un attimo e pensandoci bene, mi accorgo che non distinguo
più il
colore della pelle di chi mi sta intorno. Per realizzare se chi mi sta
di
fronte è bianco oppure nero devo mettere in atto un pensiero
razionale, non è più
un’osservazione istintiva. Quando realizzo
l’esistenza di questo piccolo ma
significativo cambiamento, sento di essere riuscito a calarmi in modo
completo
in questa esperienza, alleggerito dal fardello di ogni più
piccolo pregiudizio.
Mi chiedo se lo stesso valga anche per uno solo dei nostri nuovi amici
africani: sarebbe una bella base da cui far partire il progetto.
Giovedì 28 dicembre
Ultimo giorno intero al
Centro. Domani mattina partiremo verso la capitale per prendere
l’aereo a tarda
notte. Siamo quasi alla fine del viaggio, ma l’atmosfera
generale, ancora gaia
e spensierata, non pare esserne turbata. C’è
ancora tanta voglia di vivere
l’attimo, di godersi pienamente questa nuova giornata
africana. E così in men
che non si dica organizziamo una partita di calcio contro una
rappresentativa
del villaggio. Centro Ghelawe contro Lotò.
Era da giorni che se ne
parlava, in realtà così tanto per fare due
chiacchiere. Ma a forza di parlarne
la voce si è diffusa ed i giovani aitanti che sono apparsi
come d’incanto nei
pressi del Centro poco dopo pranzo sono lì a chiederci di
soddisfare la loro
voglia di giocare. Appena al di là della collina
c’è un campo, ci dicono, e
così saltiamo entusiasti tutti insieme su Carolina
inneggiando qualche coro da
stadio per immedesimarci meglio nella parte, festosi e chiassosi come
non mai.
I bambini che di solito animano il Centro ci precedono correndo a piedi
o su
sgangherate biciclette, guidandoci tra i sentieri del villaggio, mentre
i più
grandi che ci hanno sfidato ci attendono già al campo, con i
piedi nudi o
protetti da scarpe da ginnastica slabbrate e piene di buchi o sandali
di plastica
(quelli che si usavano al mare da noi qualche decina di anni fa). Il
campo in
realtà è una pietraia piatta invasa da erbacce
secche, senza il segno di una
porta o di una linea. Per creare il campo da gioco si da fuoco alle
erbacce e
lo si controlla fino a creare un rettangolo più o meno
preciso, poi quattro
cumuli di sassi delimiteranno le porte.
Scendiamo in campo con una
formazione degna di essere menzionata: Issà in porta pronto
a ipnotizzare gli
attaccanti avversari con il suo sguardo vacuo, difesa a quattro con
Dario e
Vincenzo al centro con il compito di guidare ai lati i meno esperti
Gabriel e
Sié, folto centrocampo a quattro con Peppino e
Samì sulle fasce pronti ad
incenerire gli avversari con i loro ripetuti scatti ed io e Simone a
dare
sostanza e chili di troppo in mezzo al campo, Doriana e
Teremì in attacco
pronte al gol di rapina. Una formazione d’altri tempi che
unisce il tipico
talento italiano alla rude forza dell’Africa più
nera, in grado di annichilire
gli avversari per i primi dieci minuti di gioco con un fraseggio rapido
e
preciso, fino al meritato vantaggio. Poi il campo al limite
dell’impraticabile,
il fumo nel corpo di troppi dei nostri ed il caldo africano complicano
le cose,
mandando a rotoli un’intesa che sembra perfetta. Tecnicamente
superiori ma
inferiori nella prestanza fisica, subiamo sempre più il loro
gioco, ritrovandoci
rintanati in un fortino che non può durare a lungo. Anche
perché Issà ci mette
del suo prendendo un paio di gol che hanno del clamoroso. Kevin
“lo sdentato” lì
davanti, poi, è un vero fenomeno. Appena Dario comincia a
boccheggiare, rallentando
la sua corsa, ci infila tre dei quattro gol con cui i nostri avversari
chiudono
definitivamente la partita. A nulla serve lo spirito indomito di
Peppino,
l’ultimo a dichiararsi sconfitto. Dopo un’ora di
gioco siamo costretti ad
alzare bandiera bianca: Centro Ghelawe 1 – Lotò 4.
Ma ci rimane il tempo di
festeggiare lo stesso la felice partita con tutti quanti sono venuti a
guardarci, tra foto, sorrisi e strette di mano. Se volete fare un
po’ di
pubblicità per un progetto in Africa, infatti, organizzate
una partita di
calcio. Il pubblico arriverà a frotte grazie al potere del
pallone.
L’ultimo
tramonto al Centro lo contemplo seduto su una delle tanto
ambite sdraio, le gambe piacevolmente stanche e nessuna escoriazione di
rilievo
sulle ginocchia ed i gomiti. Questo abituale momento di pace mi
mancherà forse
più di ogni altra cosa. Un momento di totale benessere e
pace con se stessi.
Giusta conclusione di un giorno ben vissuto. Bonne nuit.
Venerdì 29 dicembre
Ci svegliamo presto, che il
sole è appena sorto e l’aria è ancora
fresca e frizzante. Oltre ai nostri amici
del Centro, ci osservano fare le valige anche cinque giovani peul
che
vivono nelle capanne del villaggio a noi più vicine. Tra
loro c’è Adamà, forse
il bambino per cui provo la maggiore simpatia tra i tanti che ci hanno
fatto
compagnia in queste ultime settimane. I suoi modi sempre educati e lo
sguardo
timido mi sono entrati da tempo nel cuore. Sono contento che sia
lì a
salutarmi. Ad ognuno dei ragazzi lasciamo qualcosa in regalo, dalla
maglietta
alle scarpe, dall’asciugamano ai pantaloni. Le valigie
risultano così
particolarmente leggere per il viaggio di ritorno.
Anche se l’aereo da Ouaga lo
dobbiamo prendere solo io, Simone e Peppino, partiamo tutti insieme
verso la
capitale, lasciando nuovamente il Centro nelle mani di Gabriel e degli
altri
giovani amici africani. Doriana e Vincenzo torneranno a casa per
l’epifania,
mentre Dario ha in mente di starsene ancora un altro paio di mesi a
guidare i
lavori in loco.
I saluti avvengano quasi
naturalmente, senza un’eccessiva commozione. Forse
è fin chiaro a tutti che non
è un addio ma solo un lungo arrivederci. È
così che vedo il Centro scomparire
dal finestrino posteriore di Carolina che già sono
lì a pensare a Boromo, una
cittadina sulla strada per la capitale dove è possibile
osservare il passaggio
degli elefanti. Il periodo dovrebbe essere anche quello ottimale e
l’occasione
pare essere di quelle uniche. Ma non ho fatto i conti con
l’Africa, la cui
indolenza non solo ti circonda in ogni dove, ma alle volte ti penetra
fino
nelle ossa rendendo te stesso indolente. A Boromo ci arriviamo, ma
passiamo
oltre tre ore seduti ad una spartana tavola calda sulla strada a
mangiare
piatti di fagioli sempre più piccanti e bere birra sempre
meno fredda. Quando
finiamo di pranzare è ormai troppo tardi per andare
“a caccia” di elefanti. Non
ci rimane che puntare dritti alla Capitale, dove
giungiamo quando il
sole è già in procinto di lasciarsi cadere oltre
l’orizzonte. Abbiamo il tempo
di trovare un posto da dormire per chi rimane in Africa e per fare un
breve
giro a piedi nelle strade ricche di polvere e smog del centro
città. La cena ce
la gustiamo nei pressi dell’aeroporto, in un ristorante
conosciuto da Dario che
serve abbondanti piatti di pesce. La pietanza è scelta dal
cliente dopo
un’accurata valutazione presso le bancarelle poste
all’ingresso del recinto
sterrato che costituisce il ristorante. I tavoli sono illuminati dalla
luce
stentata di un paio di lampioni stradali, uno dei quali dal
funzionamento
intermittente. Il vino bianco scelto come accompagnamento al pesce non
è affatto
male. Lo lasciamo scorrere con gioia, concedendoci un lusso finora
negato.
Al
momento di salutarci sulla soglia dell’area
d’imbarco, lo zaino caricato sulle spalle, sento
d’un tratto il peso di questa
esperienza. Sono conscio di aver vissuto un magnifico approccio al
mondo
africano più vero, più intenso, ma sono
altrettanto sicuro che mi è stato
concesso solo un rapido contatto, una fugace visione inquinata da una
un
rapporto umano non paritario, sfalsato. Ho svelato solo piccole
porzioni di
questo mondo nascosto, perché questa è
l’Africa per noi europei. Un mondo del
quale conosciamo poco o nulla, solo qualche eco lontano, spesso
marginale e
inutile. Per qualche suggestivo attimo ho intravisto la vera Africa, un
battito
di ciglia sufficiente a farmi comprendere che non la conosco e non la
conoscerò
mai finché non avrò vissuto altre esperienze come
quella che si sta ora
concludendo. Dovrò tornare tra queste zolle arse dal sole
per continuare ciò
che ho iniziato, prima di tutto un cammino proteso alla comprensione di
un
universo affascinante.