The Down Under

Dal 3 febbraio al 6 marzo 2004

di Carlo Camarotto

Sky Line
Northland
Bay of Islands
Prima macchina
Opononi

Tappa numero 1, Dal 3 al 9 febbraio 2004

Il Northland

Martedì 03, Mercoledì 04 e Giovedì 05 febbraio - Verso New Zealand

Dopo un’ora dalla partenza da Padova, Giovanni è salito in treno e l’alchimia particolare che da sempre ci accompagna è sfociata naturale, facendomi tornare il sorriso sulle labbra. Con lui era salita quella sensazione di pace e tranquillità che si adagia su di me quando comincio a muovermi e posso scrutare luoghi e persone mai viste. Eravamo di nuovo in viaggio.

Poco dopo, si è sistemato in parte a noi un ragazzo piemontese di 34 anni trapiantato ormai da troppo tempo in Veneto. Era in procinto di partire per la Malesia, dove avrebbe ritrovato la sua ragazza e, ancora protetta all’interno del suo grembo, la figlia. Anche lui avrebbe volato con l’Emirates, almeno fino a Dubai.

Roberto aveva viaggiato moltissimo, soprattutto in India. Quel paese, con il suo particolare stile di vita, gli era ormai entrato nel cuore, rendendogli non più possibile una comune vita in Italia.

Facendo il check-in insieme, ci siamo fatti sistemare in posti vicini. L’aereo era bello, il migliore sul quale abbia mai viaggiato: schermo personale, film, musica e giochi, servizio impeccabile e gentile.

Tra qualche chiacchiera e le consuete dormite, il tempo è passato veloce ed indolore. A Dubai Roberto aveva l’aereo dopo due ore, quindi ci siamo salutati con un semplice abbraccio con la speranza di rivederci in Italia.

Appena superate le porte dell’aeroporto ci aspettava un pulmino che ci avrebbe portato, dopo un sgommata di una decina di minuti, proprio nell’atrio di un bell’albergo a troppe stelle dotato di tutti i comfort e di tutti gli sfarzi tipici del luogo. Giovanni è in parte debilitato da un attacco influenzale che da un giorno lo marca d’appresso, pronto ad esplodere da un momento all’altro: non ci mette molto ad accasciarsi sul letto. Io sono in vacanza e mi voglio godere anche la minima sensazione di libertà che mi accarezza la pelle e mi solletica l’animo: riempio la vasca e mi faccio un bagno rilassante di oltre un’ora, comodamente adagiato in una vasca tra le più grandi che abbia mai visto. Ormai lessato vengo attratto anch’io dalle soffici lenzuola del letto, ma ormai mancano meno di due ore alla sveglia, che arriva puntuale con una chiamata fastidiosa dalla reception.

Siamo in partenza per Singapore che neanche ce ne accorgiamo.

In volo scopriamo la comune passione per un gioco di intrattenimento a quiz e, grazie a questo, i lunghi voli ci passano tranquillamente.

Lo scalo a Singapore è solo una rapida formalità, quello a Brisbane è tirato un po’ troppo alla lunga causa scrupolosi controlli. La coda più lunga è comunque quella di Auckland: più di un’ora per uscire dall’aeroporto.

Il cielo è percorso da nubi ed il sole a volte ne viene oscurato. In maniche corte si sta bene, ma mi ero preparato ad un clima più caldo... chissà se il colibrì (il mio straordinario sacco a pelo, del tutto incapace di proteggere dal freddo) sarà in grado di compiere il suo dovere.

Lo shuttle per il centro ci aspetta appena oltre l’uscita: 15 $ (dollaro neozelandese, del valore di circa metà euro) per una persona, 20 per due... ti porta dove vuoi. Ci facciamo lasciare in Queen Street, la via principale del centro.

Per arrivarci passiamo per Parnell, una zona residenziale ricca di case di legno circondate da giardini ben curati: è piuttosto verde ed è un continuo sali e scendi.

Joe è ridotto piuttosto male: ha un fortissimo mal di gola, non riesce a tenere gli occhi aperti ed è pallidissimo. Quando smontiamo dallo shuttle, gli consiglio di starsene tranquillo su una qualche panchina mentre cerco un alloggio. Per fortuna non ci metto molto a trovarne uno e ritorno appena in tempo per salvarlo dalle grinfie di un barbone ubriaco che lo aveva scambiato per un compagno.

L’ostello si chiama Dowtown Backpackers Albert Park e si trova proprio ai piedi del parco omonimo dalla parte della Skytower, che si innalza imponente sopra le nostre teste cinque isolati più a ovest (23 $ a notte in camerate da sei). È un posto affollato da persone da tutto il mondo, di cui molti giapponesi venuti qui per imparare l’inglese, ma anche molti viaggiatori zaino in spalla (backpackers, appunto) come noi: è quello che cercavamo.

Alle sette abbiamo appuntamento in Aotea Square con Christian, un amico di Giovanni impegnato in un master in Australia, che starà con noi fino al 24, praticamente per due terzi del viaggio. Scuro di carnagione, capelli nerissimi e sorriso accattivante, Christian ricorda molto Banderas; all’aspetto più che piacente, assomma poi una naturale simpatia.

Quando lo raggiungiamo, Joe ormai è più in là che di qua. Io arranco, ma resisto. Trasportati da Christian iniziamo a vagare un po’ per il centro, tra il porto che si sta proprio ora animando, ricco di molti localini alla moda, ed i grattacieli tra cui spicca la Skytower. Ci fermiamo a mangiare in un ristorantino giapponese proprio ai piedi della torre e per la prima volta nella mia vita assaggio il shusi e il shashimi.

Giovanni esce dal locale strisciando e con difficoltà riusciamo a convincerlo a seguirci a prendere una birra. A lato di Queen Street si apre, tra le tante, una piccola stradina pedonale in cui abbondano i pub in stile inglese. Scegliamo quello dove una coppia con la chitarra in mano suona qualche brano di musica folk-pop. Quando entriamo smettono di suonare, per ricominciare quando decidiamo di andarcene.

Un salto veloce ad un internet point per avvertire casa e poi a letto. Io e Joe collassiamo senza quasi rendercene conto.

Venerdì 06 febbraio - Si punta a nord

Mi sveglio prima degli altri. Anche Christian è un dormiglione e non avrà problemi ad andare d’accordo con Joe.

Li aspetto un’ora scrivendo seduto su una delle tante panchine poste appena fuori le camerate. Dobbiamo decidere cosa fare. L’idea di passare una degna notte di baldorie ad Auckland ci attira, ma alla fine la voglia di partire subito verso nord ha la meglio.

Purtroppo il 6 febbraio è giorno di festa nazionale (il Waitangi Day celebra la firma dello storico trattato tra i Maori e i rappresentanti della Regina Vittoria del 1840) e ce ne accorgiamo al momento di prenotare: con difficoltà troviamo un posto dove dormire a Kerikeri, un piccolo villaggio agricolo a 15 km da Paihia, la cittadina più importante della Bay of Islands, e non riusciamo a noleggiare nemmeno uno skateboard. Un po’ abbattuti partiamo alle due con una corriera verso nord.

Il paesaggio che si svolge ai nostri occhi è a tratti stupendo. Formazioni compatte d’alberi si attestano sopra dolci colli e giù tra strette valli rocciose. Felci arboree addolciscono con il loro tenue colore il verde più scuro del bosco e ci rammentano dove siamo. La strada è spesso una lunga e sottile lingua grigia che serpeggia tra il verde intenso della foresta ed alle volte ne è inghiottita. I paesi che sorpassiamo sono agglomerati di basse case di legno dai colori pastello, sempre circondate da ampi prati accuratamente tagliati.

Ogni tanto, però, appaiono anche degli scempi forestali, come tagli inconsulti che hanno devastato interi versanti delle montagne o immensi impianti squadrati di pini. Procedendo verso nord, poi, cominciano a farsi maggiormente vedere i pascoli per i bovini e gli ovini.

Purtroppo il cielo si fa sempre più plumbeo con il prosieguo del viaggio e più volte andiamo ad incrociare forti scrosci di pioggia.

A Paihia sale sulla corriera una ragazza italiana di nome Sara, subito accalappiata da un attento Giovanni. Capelli corti scuri e pelle abbronzata, Sara è in viaggio solitario per la Nuova Zelanda solo da pochi giorni, ma ha intenzione di rimanerci per oltre un anno. È stata spinta quaggiù nel Down Under (modo simpatico per chiamare la NZ) dall’allergia allo stile di vita di Milano, sua città natale. Prima di approdare qui, comunque, si era già fatta due mesi in Thailandia.

È diretta al nostro stesso ostello (Hone Heke Lodge), un luogo posto un po’ fuori il centro di Kerikeri, immerso nel verde ed assordato dal canto di migliaia di grilli. È costituito da due bassi edifici divisi tra loro da un ampio piazzale in ghiaino; le camerate, normalmente con sei letti, si aprono direttamente su un pergolato che è diviso dal piazzale da una serie di panche e tavoli di legno su cui solitamente bivaccano ragazzi di tutte le nazionalità, occidentali ed orientali in uguale misura. Qui, come in molti altri posti in NZ, è possibile lavorare per due ore pulendo la cucina, i bagni o quant’altro, in cambio dell’alloggio; da altre parti con quattro ore di danno anche il vitto.

Ci sistemiamo con tranquillità e in men che non si dica siamo catturati da una delle sale svago dell’ostello: fanno bella mostra in centro alla stanza un tavolo da biliardo ed uno da ping-pong. È qui che inizierà il perenne tenzone che vedrà noi baldi giovani sfidarci in tutte le regioni della NZ su qualsivoglia tavolo di gioco (siamo un po’ competitivi).

Tra una partita e l’altra, abbiamo deciso di incamminarci verso il centro in cerca di cibo che erano da poco passate le otto e mezza. Sara ha deciso di seguirci. Purtroppo le cucine in NZ chiudono presto e così ci siamo ritrovati a cenare a base di birra, vino e patatine fritte (in sacchetto!!). Nel pub dove ci siamo rifugiati facciamo conoscenza di Ed, un ragazzotto canadese alto, magro e con due basette enormi. Ha già bevuto forse qualcosa di troppo ed è in serata di fraterne chiacchiere; il suo inglese mi risulta comprensibilissimo, e della cosa mi compiaccio assai.

Dopo un’oretta seduti allo stesso tavolo, con l’alcol che ha già fatto un po’ presa sui nostri stomaci vuoti, Ed ci confessa che era lui il cuoco del pub e, forse per riparare al fatto di non averci voluto preparare nemmeno un banale hotdog, ci offre un giro di sambuche nere che beviamo con i chicchi di caffé ed alla fiamma.

Per tornare all’ostello abbiamo bisogno della luce della luna, perché non si vede un lampione neanche a pagarlo oro. Siamo più che allegri e camminiamo spensierati come quattro vecchi amici lungo queste nuove e buie strade, ridendo della nostra prima strana serata insieme.

Continuiamo a chiacchierare tra sonore risa anche all’ostello, per poi andare a letto più o meno intorno all’una.

Sabato 7 febbraio - Alla ricerca delle rovine

Fuori c’è un sole splendido e mi sveglio pimpante. Non posso dire lo stesso dei miei due compari che mi maledicono da subito per l’eccessiva vitalità mattutina.

Sulla bacheca della sala divertimenti è riportato che la prima corriera per Paihia, ed anche ultima della mattinata, parte dal centro del paese alle otto e mezza. Ovviamente è un orario sbagliato (partenza reale otto e cinque) e ci ritroviamo in centro a Kerikeri con il programma della giornata completamente da rifare. Questo è la prima delle piccole coincidenze sbagliate che ci accompagneranno costantemente per tutta la prima parte del viaggio.

Panino veloce per allentare i morsi della fame e decisione di tornare all’ostello per ripensare con più calma a cosa fare. Qui ritroviamo Sara che tenta di uscire faticosamente dal coma notturno. Così partiamo tutti insieme per una bella camminata alla scoperta dei dintorni. Senza acqua e senza viveri ci apprestiamo a raggiungere le Edmonds ruins, delle rovine vicino al mare in un posto imprecisato dalle parti della Waitangi Forest. Insomma, non sappiamo nulla della meta e l’idea di come arrivarci è più che approssimativa, ma siamo in vacanza ed è bello improvvisare.

Il sole, scomparso per buona parte della giornata, riappare in un cielo sgombro di nuvole e comincia a scaldare come un ossesso. La strada si svolge lungo una strada asfaltata cinta da alte siepi che proteggono frutteti, vigneti e pascoli per cavalli. Transitano veramente poche macchine e un cicalio continuo fa da sfondo al nostro peregrinare.

Chiacchiero allegramente con Sara e vengo a scoprire che lavora come grafica (free agent) e che ha vissuto tre anni a Parigi per lavoro dopo aver vinto un importante concorso internazionale. È molto brava nel suo lavoro, ma è dovuta partire per comprendere meglio chi è e cosa vuole veramente dalla vita, o forse solo per provare a ricariche delle batterie ormai scariche.

Proseguiamo a camminare imperterriti verso ovest mentre il paesaggio cambia ai nostri sguardi. Le colture da frutto lasciano spazio a pascoli sempre più estesi, con enormi alberi isolati splendidi nella loro altera mole, a wetlands e a vasti rimboschimenti di pino.

Il caldo e la fatica cominciano a farsi sentire e del mare nemmeno l’ombra. Io e Sara avanziamo l’ipotesi di tornare indietro, ma Christian e Joe non vogliono darsi per vinti e ci spingono in avanti. Alla fine arriviamo al compromesso di fare l’autostop.

Ci raccoglie una signora molto freak, di chiara origine francese, che ci accompagna fino ad un posto nei pressi del mare. La riva è rocciosa, ma l’acqua tende ugualmente al marrone. È comunque il paesaggio dall’altra parte della baia ad allietarci, un magnifico mosaico di svariati verdi che vale la pena di ammirare.

Dopo un’oretta arriva il momento di tornare sui nostri passi e c’è da parte di tutti la vivida speranza di ottenere un passaggio da qualche anima pia: la strada per Kerikeri è davvero troppo lunga e la sete è tanta.

Dopo qualche centinaio di metri troviamo però un cartello con le indicazioni per le Edmonds ruins e l’attenzione dei miei due compagni si ravviva: vogliono andare a vederle. Camminiamo su una strada sterrata con il sole che continua a battere come un indemoniato, in compagnia di solo qualche pecora che scappa via impaurita al nostro passaggio. Miracolosamente i due nuovi esploratori del XXI secolo decidono di desistere dopo l’ennesima svolta della strada senza risultato.

Joe ha troppa sete e decide di partire alla ricerca di una casa per chiederne gentilmente qualche goccia. Sara lo accompagna, anche perché Joe non sa parlare inglese. Al primo tentativo trovano un vecchietto con il pannolone che muore quasi d’infarto quando li vede nel suo giardino, al secondo un uomo nudo che esaudisce prontamente la loro richiesta.

Iniziamo così a sgambettare un po’ risollevati verso Kerikeri, ma l’umore diviene via via più cupo mano a mano che le poche macchine che transitano per la strada ci ignorano bellamente. Christian propone l’idea di dividerci in coppie, sicuramente più facili da tirare su. Noi due ci spostiamo un centinaio di metri avanti agli altri.

Poco dopo una macchina di turisti inglesi accoglie benevolmente Sara, ma purtroppo non hanno posto per Joe, così siamo costretti ad aspettarlo. Il tempo intanto passa e i chilometri si macinano sotto un sole sempre più incazzato. Nessuno vuole darci un passaggio ed ormai la speranza è ridotta al lumicino quando una tedesca, trapiantata da una decina d’anni nel Northland (così si chiama la regione neozelandese dell’estremo nord dell’isola del nord), ci risolleva di colpo il morale.

Alla fine, quindi, ci hanno dato un passaggio una francese, degli inglesi ed una tedesca... forse non siamo così male noi europei.

Finalmente a Kerikeri, facciamo un’abbondante spesa in previsione di una cena succulenta, buon rimedio italiano per porre fine felicemente alla serata. Anche Sara ha pensato la stessa cosa, difatti la ritroviamo in ostello mentre cucina del riso alla thailandese per tutti.

La cena è ottima e la condiamo con del buon vino australiano (costa meno di quello neozelandese e sembra migliore) fino a poco dopo le undici, ora alla quale la stanchezza si è fatta insopportabilmente pesante.

Domenica 8 febbraio - La baia delle isole

Questa volta la corriera per Paihia è certamente alle dieci e mezzo... non possiamo perderla neanche volendo.

Mi alzo con calma poco dopo le otto e sono invitato caldamente da Sara a fare colazione con lei. Mi ingozza di cornflakes, latte e caffé e la mattinata acquista già una piega positiva. Gli altri due compari sono avvinghiati ai loro sacchi a pelo e si perdono questo piccolo momento magico.

Giovanni è l’ultimo ad alzarsi ed è, come sempre, cotto fino al midollo. Partiamo rapidi verso il centro che sono da poco passate le dieci.

La giornata è splendida, con solo qualche nuvola bianca dipinta immota nel cielo azzurrissimo. Il verde della terra è brillante ed infonde un perdurante senso di pace.

Per oggi protezione quindici su tutto il corpo per alleviare le scottature già esistenti e non procurarsene delle nuove. Anche se siamo alla stessa latitudine dell’Italia, la riduzione dello strato di ozono rende i raggi del sole molto pericolosi (la protezione quindici può non bastare per le pelli più sensibili).

A Paihia, la cittadina fulcro delle attività turistiche della zona, prenotiamo un giro di tre ore in barca per visitare le isole al largo della Bay of Islands e poi ci sediamo ai bordi della spiaggia ad aspettare l’ora della partenza.

Partiamo con la barca poco dopo l’una. Prima di navigare tra le varie isole della baia, però, breve passaggio al porticciolo di Russel, una cittadina storica importante per i tanti scontri tra maori e pakeha (così venivano chiamati gli uomini bianchi) avvenuti in questo piccolo angolo di mondo nei primi anni di vita dell’odierna NZ.

La Bay of Islands è, come dice anche il nome, tappezzata di numerose isole ammantate di boschi e prati che si spingono fin in riva al mare. Qualche spiaggia è riuscita a trovare il suo spazio tra le rocce e offre un bel contrasto con il verde dei pascoli soprastanti. Le rocce sono nere, di chiara origine vulcanica, e aumentano la bella policromia della costa.

A metà crociera veniamo circondati da una ventina di giocosi delfini che rimangono tranquilli nei pressi della barca a farsi ammirare per oltre mezz’ora.

Il punto estremo dell’escursione è l’Hole in the rock, uno scoglio alto più di cento metri con una galleria che lo passa da parte a parte (lo scoglio ha anche un vero nome... Piercy Island). Il varco è abbastanza grande da permettere il nostro passaggio attraverso lo scoglio. Sulla terraferma, in alto sulle scogliere verdeggianti, è posizionato un piccolo faro bianco che protegge Cape Brett, la punta che delimita ad ovest l’intera baia: l’immagine d’insieme è mozzafiato.

Erano le quattro e mezza quando abbiamo rimesso piede a Paihia: avevamo oltre quattro ore da aspettare per poter tornare verso Kerikeri. Tra camminata in centro e spesetta per mangiare la sera siamo riusciti a far passare la prima ora. Per il resto abbiamo cercato d’informarci su come arrivare alla Kauri Forest, uno dei pochi lembi ancora intatti di foresta vergine posto sul lato occidentale del Northland. Con disappunto abbiamo scoperto la quasi totale mancanza di mezzi pubblici su quel lato della penisola (non è che nelle altre parti abbondano): non era possibile arrivare alla foresta senza perdere poi un giorno per il ritorno. Ciò ha confermato quello che già supponevamo: la NZ è un posto da esplorare con un mezzo personale... noleggiare un’auto è sempre una buona idea.

Comincia a farsi spazio in noi l’ipotesi che ci sia un piano occulto per farci andare le cose per il verso sbagliato. Dobbiamo pur attribuire le colpe dei nostri "insuccessi" a qualcuno. È così che si materializza tra noi la figura di "Bruno il Guastatore".

Bruno sembra non voler perdere neanche un colpo perché la corriera per Kerikeri sembra essersi persa nelle nebbie del tempo, un ritardo colossale stile Guatemala. Per fortuna veniamo tirati su dopo un’ora d’attesa da un’altra corriera che non avrebbe dovuto passare di lì... la guerra contro Bruno è iniziata.

All’ostello ritroviamo Sara che ci attende per cenare. In poco tempo ridiamo vita al riso avanzato la sera prima. Pascal e Jonas (uno svizzero e l’altro svedese), due biondi ragazzi ventenni in viaggio solitario per il mondo, ci fanno compagnia. È intorno all’una e mezza che il letto ci accoglie nuovamente.

Lunedì 9 febbraio - Al cospetto dei giganti

Il programma pensato la sera prima davanti ad una buona serie di bicchieri di vino era quella di scappare da Kerikeri il prima possibile.

Purtroppo il vino bevuto si è dimostrato essere veramente troppo, e così nessuno dei tre si è lamentato quando abbiamo deciso di dormire fino a tardi... tutto da rifare.

Come sempre mi sono svegliato per primo e sono uscito all’aperto sotto un cielo quasi privo di nubi e con un sole splendente. Ho ritrovato Sara in compagnia di un ragazzo francese arrivato la sera prima: purtroppo aveva già fatto colazione.

Al risveglio di tutti, solita partita a ping-pong aspettando che sia troppo tardi per fare le cose con la giusta calma. Quando decidiamo di attivarci scopriamo, con nostra grande sorpresa, che esistono degli autonoleggi a Kerikeri: decidiamo di andarci velocemente a piedi. L’ora dell’ultima corriera per il sud è già passata da un po’, quindi siamo in ogni caso nuovamente inchiodati nel Northland.

Proviamo due posti ed entrambi confermano di non avere mezzi per noi. Torniamo all’ostello ancora una volta sconfitti e Sara, che ci aveva accompagnato incoscientemente fino a quel momento, decide finalmente (per lei) di abbandonarci per andare a fare un bagno alle Rainbow Falls, una serie di cascate appena fuori dal paese. Noi non demordiamo e comunichiamo con tranquillità a Pascal che ci sono due notizie per lui, una buona e una cattiva. Lui sceglie di conoscere prima la cattiva "La tua macchina questo pomeriggio sparirà", e poi la buona "Dopo questo pomeriggio sarai più ricco". In realtà abbiamo intenzione di ringraziarlo con una lauta cena all’italiana.

Ci presta la macchina senza un apparente problema e partiamo subito alla volta della costa ovest. Il tempo intanto si è fatto più brutto ed incontriamo sulla strada qualche scroscio di pioggia. La nostra "nuova" macchina è una sgangherata station-wagon di color marrone che ci rende molto freak: la sentiamo subito parte di noi e ci dispiacerà abbandonarla alla fine della giornata.

Arrivati in prossimità del Mar di Tasman ci appare alla vista una splendida visione: un’immensa duna di sabbia si erge a contrasto con i verdi pascoli dall’altro lato della baia, una discontinuità cromatica risaltata dai primi raggi del sole che sfuggono al controllo delle nubi.

Decidiamo di fermarci un attimo per assaporare il momento (benedetta macchina). Poi via di nuovo verso sud in direzione della Kauri Forest. A metà percorso siamo bloccati sulla strada da una mandria di vacche che marciano lente sull’asfalto. È necessario l’aiuto del mandriano per trovare un pertugio tra le bestie e tornare a viaggiare veloci. Da lì a poco ci buttiamo dentro la spessa coltre di nubi che cingono d’assedio le montagne ed inizia a piovere sul serio.

Andiamo a fare visita ai due kauri più grandi dell’intera foresta (alberi di oltre mille anni, larghi sei-sette metri e alti più di cinquanta) e camminiamo per quasi un’ora seguendo una serie di sentieri ben segnalati. La foresta primigenia dell’isola del nord, un intricato mondo vegetale purtroppo quasi completamente scomparso: sconfitto, è relegato solo in pochi lembi di terra sparsi a macchia di leopardo, soprattutto nel Northland... che tristezza.

Nel tornare verso Kerikeri ci siamo rifermati nuovamente ad ammirare l’ingresso in mare dell’Hokianga harbour (quella di prima con la duna da un lato ed i pascoli dall’altro), questa volta sedendoci sulla spiaggia di Oponomi (uno dei due piccoli paesini da quel lato della baia).

Poi spesa per la cena, pieno di benzina, e via verso l’ostello inseguendo uno splendido arcobaleno apparso magicamente ad est.

Qui ritroviamo tutti i nostri compari, più una ragazza di Mantova trapiantata ormai da quattro anni in NZ. Cinzia è sposata con un ragazzo di Auckland ed è lì per lavoro: deve spostarsi lungo le foreste del Northland per valutare i danni dell’opossum sulla vegetazione locale. Abituata a parlare solo inglese, parla un italiano con un fortissimo accento straniero. Ovviamente la invitiamo a mangiare qualcosa con noi.

La cena sarà ottima, condita, oltre che da un discreto vino australiano, da molte chiacchiere e da una frizzante allegria. Oltre a noi italiani, c’erano Jonas, Pascal ed un ragazzo danese di cui non ricordo più il nome. Una bella serata in compagnia.