The Down Under

Dal 3 febbraio al 6 marzo 2004

di Carlo Camarotto

Beehive - L'Arnia
Venti posti
Al Kiwiana
Totaranui Beach
Moran e Gali
Jules

Tappa numero 3, Dal 15 al 20 febbraio 2004

Il nord dell'Isola del sud

Domenica 15 febbraio - Avventura indimenticabile

Al risveglio scopriamo che fuori il tempo è pessimo. Scesi dalla corriera veniamo colti dal freddo, dal vento e dal dramma di Giovanni che ha perso il GPS: è in piena crisi e su di lui non possiamo più contare. Ancora insonnoliti e raffreddati, ci cambiamo nel bagno della stazione per metterci addosso qualcosa di più pesante.

Il primo obiettivo è trovare un posto per fare colazione. Alle otto di domenica mattina è però tutto ancora chiuso e la città ci appare fantasma. Gli eventi meteorici ci lasciano alle volte qualche attimo di tregua: in uno di questi riusciamo ad avvicinarci allo strano Parlamento neozelandese, The Beehive (l’alveare), un edificio dalla particolare e controversa architettura.

Verso le nove riusciamo finalmente ad entrare in un caffé gestito da cinesi e vi rimaniamo ben protetti per quasi un’ora. Dalle dieci la capitale si è rianimata all’improvviso e buona parte dei negozi, che prima ci apparivano desolatamente chiusi, si sono illuminati di nuova vita, per la soddisfazione di Christian che si è messo a cercare subito una maglia per infoltire il leggero guardaroba.

Nel pomeriggio il vento è cresciuto di intensità portandosi dietro una fitta e fastidiosa pioggerellina, ma noi, imperterriti, continuiamo a camminare per le strade del centro (comunque quasi tutte protette da ampi porticati... si vede che a Wellington piove parecchio). È così che, dopo aver vagato ancora un po’, giungiamo in prossimità dell’ora della partenza del traghetto.

Raccolti gli zaini, che avevamo lasciato al deposito della stazione, ci dirigiamo verso il porto: il vento è aumentato fino ad una velocità impressionante ed il solo stare all’aperto è diventato problematico. Appena giunti all’interno degli uffici della compagnia dei traghetti, siti all’interno di un hangar, ci troviamo di fronte ad una brutta notizia: il nostro traghetto non sarebbe partito a causa delle avverse condizioni meteo. Non dovevamo comunque preoccuparci più di tanto perché ci avrebbero dirottato su un traghetto più grande che sarebbe partito certamente due ore dopo.

Nella pausa che così ci hanno concesso, Giovanni prende la decisione di acquistare il GPS che avevamo visto prima in un negozio; io e Chris pensiamo invece a fare qualche telefonata al di là dello stretto per cercare un posto da dormire (cosa non facile).

Tranquillizzati, non abbiamo fatto a tempo a sederci che un addetto della compagnia dei traghetti si è avvicinato per avvertirci che nemmeno il secondo traghetto, quello grande che sarebbe sicuramente partito, avrebbe preso il mare quel giorno: le condizioni meteo si facevano sempre più proibitive.

Qualche leggera imprecazione qua e là. Per poter disdire il posto da dormire appena prenotato a Pincton, dobbiamo chiedere allo sportello della compagnia il telefono, visto che noi soldi in moneta non ne abbiamo più. Con una seconda telefonata avvisiamo l’autonoleggio che non saremmo arrivati quel giorno e con una terza troviamo da dormire a Wellington.

Al ritorno di Joe, che non aveva comprato nulla perché non c’erano le istruzioni, prendiamo gli zaini in mano con l’intenzione di andare a cercare il nostro ostello. Proprio in quel momento un altro degli sventurati che stavano patendo la nostra stessa situazione (in tutto una coppia neozelandese ed un trio di attempate ragazze, forse australiane) ci si avvicina e ci avverte della possibilità di partire per l’isola del sud in aereo. Il viaggio costa solo poco più del traghetto e la partenza viene data sicura (come il traghetto grande?). Dopo un rapido summit, condito da molte incertezze (forse sarebbe migliore dire paure) sulle reali possibilità che un aereo potesse partire con un tempo simile, decidiamo che si deve tentare.

Attraverso il ticket office dei traghetti prenotiamo il volo aereo. Fuori dall’hangar ci aspetta già uno shuttle che, sbandando anche parecchio per colpa del vento, ci porta all’aeroporto in meno di venti minuti.

Qui giunti ci avvertono che i voli sono tutti un po’ in ritardo, di circa un’ora, così dobbiamo aspettare il lento trascorrere del tempo. Il corridoio che conduce al gate 4 (da dove dovrà partire il nostro aereo) e la corrispondente sala d’attesa, sono le zone più fredde dell’aeroporto a causa di numerosi spifferi accentuati dal forte vento.

Abbiamo tutto il tempo per valutare che Bruno questa volta ce l’ha fatta proprio grossa.

Inganniamo l’attesa con qualcosa da mangiare e con turni di passeggiate nelle aree più calde dell’aeroporto. Proprio quando rimango solo a bada degli zaini, l’addetto della compagnia aeree neozelandese, un ragazzo biondo, giovane ed incerto, mi avverte che alle sette partirà il volo tanto agognato.  Gli consegno gli zaini che devono essere caricati e, all’arrivo dei miei due compagni, ci appropriamo dei biglietti cedendo 183 dollari neozelandesi come contropartita (poco meno di 100 euro).

Con il biglietto in mano, però, sale la paura per quello che ormai è un evento quasi inevitabile: prendere un aereo in mezzo a tutto quella tormenta. Viste da dietro le pareti di vetro, le persone all’esterno che riescono a reggersi in piedi con estrema fatica fanno una certa impressione. Tra il sempre maggior nervosismo e la paura che piano piano cresce, cerchiamo di tirarci su il morale sparando sempre più cagate.

Alle sette e dieci, aspettando ancora una qualche chiamata per la salita a bordo, ci rendiamo conto che la coppia di neozelandesi e le tre ragazze attempate non ci sono più. Ma dove sono finiti i nostri compagni di viaggio?

Sono il primo a scattare veloce in piedi e sono l’unico a notare il giovane addetto partire con un furgone sotto la pioggia sferzante. Non c’è più nessuno di conosciuto a cui chiedere lumi, quindi rimaniamo incerti a guardarci negli occhi per circa una decina di minuti, finché l’addetto non ci riappare di fronte bagnato fradicio.

Lo guardiamo con sguardo interrogativo e lui ci risponde di rimando con l’espressione più perplessa che si possa immaginare ed una domanda muta appesa alle labbra: ma voi cosa ci fate ancora qui?

Dopo qualche secondo, che poteva comunque sembrare molto di più, riesce a dirci con voce incerta che il nostro volo è già partito e che non può spiegarsi il fatto che noi siamo ancora a terra.

A Christian sfugge una sonora bestemmia, io mi siedo a terra e scoppio in una fragorosa risata, Giovanni cerca di razionalizzare l’accaduto incitandoci a non lasciarci andare. Bruno si sta dimostrando imbattibile.

Il vero problema non è tanto aver perso l’aereo, ma il fatto che i nostri zaini sono soli in volo verso l’isola del sud. Lo facciamo notare prontamente all’addetto che, estratto a forza dalla sua apatia, prende in mano il telefono e scopre che il nostro aereo è ancora fermo sulla pista di rullaggio.

 Come saette saliamo sul furgoncino e ci dirigiamo insieme al biondo neozelandese verso l’aereo. Dopo qualche minuto ci fermiamo a lato di un piccolo bimotore ed ho una ulteriore stretta al cuore: quant’è piccolo.

Quando metto piede a terra vengo strattonato con forza dal vento e quasi non finisco lungo disteso ad ammirare l’asfalto... sempre peggiore questa situazione.

Appena saliti sull’aereo veniamo accolti da un applauso che ci accompagna finché non ci sediamo negli ultimi posti in coda (in tutto ci sono 21 posti): erano state le tre attempate ragazze a bloccare l’aereo perché non vedevano più "gli italiani".

Con Giovanni continuiamo a sparare stupidate, tanto per sdrammatizzare, ma la tensione è ovunque palpabile. Il vento ci fa ballare parecchio e non hanno ancora tolto i fermi dalle ruote.

Partiamo comunque insospettabilmente tranquilli e gli scossoni sono normali fino a che non arriviamo in vista dell’isola del sud. A quel punto, quando ormai uno pensa che il più è fatto, il capitano si volta e ci avverte che ci sarà un po’ da ballare... purtroppo scopriamo da lì a breve che non è un burlone. Siamo costretti a tenerci aggrappati al sedile per attenuare i forti sbalzi, mentre i vuoti d’aria si fanno sempre più temibili. Christian li soffre terribilmente e non lo si sente più parlare.

L’atterraggio è comunque più tranquillo di quanto mi aspettassi e in meno di mezz’ora dalla partenza poniamo il piede sull’isola del sud, esattamente a Blenhaim e siamo vivi.

È ormai troppo tardi per tornare verso Pincton, dove sappiamo esserci anche una certa difficoltà a trovare da dormire. Decidiamo quindi di rimanere in loco e rimandare all’indomani il viaggio verso la nostra macchina.

La strada tra l’aeroporto ed il centro cittadino la facciamo in parte a piedi ed in parte con un neozelandese di origine indiane che ci offre magnanimo un passaggio. Troviamo da dormire in un camp tutto sommato carino ma con una cucina poco attrezzata. Dopo una veloce cena a base di pane e formaggio, siamo già a dormire: è stata una giornata intensa, forse troppo intensa.

Lunedì 16 febbraio - L’ostello della morte

Ci svegliamo abbastanza presto per i nostri standard perché dobbiamo partire per Pincton il prima possibile: la macchina ci aspetta.

La parola "presto" ha comunque un significato relativo per i miei due compagni di viaggio e riusciamo ad arrivare alla vecchia stazione dei treni che sono già passate da un pezzo le dieci.

Fuori c’è vento e qualche goccia di pioggia; il cielo è grigio e un po’ deprimente.

La corriera per Pincton è in realtà un furgoncino guidato da un yippie dai lunghi capelli color paglia. Per giungere a destinazione ci sono solo trenta chilometri ed in men che non si dica siamo già arrivati.

Gli uffici della compagnia dei traghetti sono gremiti di persone che attendono di partire (anche quel giorno, però, non si partirà: a Wellington è in atto una vera alluvione) o di farsi rimborsare i soldi per la mancata partenza del giorno prima, come noi. La trafila per il rimborso comunque non ci porta via troppo tempo grazie alla buona organizzazione.

Paradossalmente impieghiamo più tempo a prendere la macchina, che avevamo ormai prenotata da una settimana: è una impersonale Lexus bianca a cinque porte con cambio manuale.

Partiamo così in direzione di Nelson, scegliendo però la tortuosa strada costiera che si inerpica sulle ripide pendici dei fiordi del Marlborough Sound. Le viste che si aprono ai nostri occhi sono bellissime, un continuo contrasto tra il verde scuro della rigogliosa vegetazione ed il blu del mare che, placido, si incunea in profondità nella terra. È un vero peccato che il sole appaia solo a tratti e che le nuvole facciano da padrone nel cielo.

La strada secondaria si getta in quella principale proveniente da Blenheim in corrispondenza di Havelock, un piccolo centro di pescatori noto per la raccolta della cozza dal guscio verde.

Noi corriamo decisi verso ovest e giungiamo a Nelson che è appena mezzogiorno. Giovanni vuole il GPS. Cominciamo così a vagare, alle volte completamente a caso, mentre il sole comincia ad impadronirsi del cielo.

Nelson è una città ordinata e carina, comunque sempre un po’ impersonale, come tutte le cittadine neozelandesi; però ci sono alcune case di legno veramente di ottima fattura. Nel nostro peregrinare ci ritroviamo a Port Nelson, il sobborgo sul mare, e scorgiamo una serie di splendide vedute sulla Tasman Bay. Ad attrarre la nostra attenzione è una bella spiaggia bianca sferzata dal vento: mettiamo a memoria il posto con l’intento di tornarci più tardi.

Dopo un po’ troviamo quello che stavamo cercando, un negozio specializzato in strumentazione nautiche. Qui Joe decide di fare la sudata spesa e se ne esce dal locale con il suo GPS nuovo, praticamente identico a quello perso.

A questo punto il pomeriggio si è già fatto avanzato e di strada ne dobbiamo ancora fare. Partiamo rapidi con meta Takaka ma quando passiamo a lato della spiaggia vista in precedenza, non riusciamo a resistere alla tentazione di andarla ad assaggiare con i piedi nudi. Camminiamo così sorridenti sulla fresca sabbia finché non troviamo tre ragazzi che giocano a calcio. Basta uno sguardo d’intesa per decidere che non possiamo non sfidarli.

Finita la partita ci concediamo un bagno e poi ripartiamo verso la Golden Bay consapevoli che si è fatto talmente tardi che non saremo mai in grado di arrivarci. Decidiamo di arrivare almeno a Motueka. Ci giungiamo che sono ormai passate le sette ed il vecchio sole tinge già di rosa il cielo. Proviamo a chiedere un posto da dormire ad una bella serie di ostelli a conduzione famigliare, pieni di giovani backpackers già intenti a mangiare, ma sono tutti "No Vacancies". Giriamo a vuoto per un bel po’ e cominciamo a pensare a quali posizioni dovremmo assumere per dormire in macchina.

Come ultima possibilità (ormai si è fatto buio) ci spostiamo fuori il centro in cerca dell’ultimo ostello indicato dalla Edt (Melting Pot Backpackers). È un vecchio centro sportivo ricco di camere e zone comuni, ma lasciato ormai agli eventi distruttivi del tempo: logoro ed abbandonato. È gestito da un vecchio signore con la passione per le macchine che scherza con noi con qualche parola d’italiano. La clientela è per lo più composta da attempati bikers con maglioni di tatuaggi e borchie, più qualche lavoratore stagionale ed un gruppo di ragazzi maori. Lo definiamo subito "l’ostello della morte" e ci immaginiamo una notte tipo "Dal tramonto all’alba".

Al momento di cenare conosciamo Giorgio, un ragazzo di Terni in giro perenne per il mondo. Aveva lavorato a Las Vegas per tre anni, a Dublino per altri due, in un’altra decina di luoghi che non ricordo, sempre come cuoco. Ora aveva deciso di girare l’Australasia e si trovava lì per racimolare un po’ di denaro con la raccolta stagionale delle mele.

È il suo primo giorno di lavoro ed è parecchio stanco; anche per questo non riesce a rifiutare l’offerta di una salutare cena a base di verdure. In cambio ci offre una bottiglia di birra.

Chiacchieriamo amabilmente fino a quasi a mezzanotte e poi ci ritiriamo nelle nostre camere chiudendoci dentro per paura di essere aggrediti durante la notte.

Martedì 17 febbraio - Il Kiwiana

La sveglia è stata ritardata il più possibile: cominciamo ad essere stanchi. Purtroppo il check-out fissato per le dieci è improrogabile, quindi facciamo in fretta la colazione e partiamo svelti alla volta di Takaka. La giornata è grigia e soffia un vento freddo dal mare.

Per passare dalla Tasman Bay alla Golden Bay bisogna inerpicarsi sulla Takaka Hill e ridiscendere poi verso il mare. In cima alle colline fa piuttosto freddo e la pioggerellina che cade alterna è fastidiosa. Christian non è vestito adeguatamente e preme per arrivare dall’altro lato il più in fretta possibile. Tra me e Joe riusciamo a convincerlo a vedere l’orizzonte da due splendidi lookout, visione in parte rovinata dalla presenza di basse nuvole grigie.

Arrivati a Takaka ci fermiamo al centro turistico per informarci sulla possibilità di fare kayaking sulla baia. Giovanni raccoglie un volantino di un ostello e la scritta "Basket Court" ci convince a provarlo per primo.

Il Kiwiana è un ostello a conduzione famigliare composto da solo quattro stanze da letto, una bella cucina, una serie di bagni in comune, un’ampia veranda ed una dependance allestita a luogo d’incontro. La padrona è una donna di mezza età dai lunghi capelli neri macchiati di grigio e dai modi schietti, anche se cordiali. È di origine italiana, ma non parla e non comprende la nostra lingua.

Inizialmente ci dice che non ha posto, ma poi, dopo che Giovanni è riuscito a farsi amico il cane di casa, tre letti saltano fuori come d’incanto. La nostra stanza è super affollata (quattro letti a castello) ma è proprio bella, con la moquet a terra (che comunque è presente ovunque in Nuova Zelanda in tipico stile anglosassone) ed i letti in legno.

Ci sistemiamo un attimo e poi ci rifugiamo nella dependance, che doveva essere un tempo un garage,  dove fanno bella mostra di se un tavolo da ping-pong, un biliardo, una scacchiera gigante in legno, un paio di divani e di poltrone, un caminetto, una piccola biblioteca ed una serie di giochi da tavolo. Il posto è confortevole e trasmette calore.

Tra una partita di ping-pong ed una a biliardo, conosciamo alcuni degli altri ospiti dell’ostello: due ragazzi israeliani, Moran e Gali, una coppia tedesca ed una ragazza inglese. È proprio con i due israeliani che leghiamo maggiormente, soprattutto con la ragazza.

Più tardi, le nuvole che abbandonano il cielo ci permettono di fare due tiri a basket e di chiacchierare con Moran all’aperto. La ragazza israeliana è proprio carina: lunghi capelli neri che incorniciano un viso delicato. Ha un passato lontano da ballerina classica ed uno più prossimo da cantante (nel suo paese è stata anche famosa per un paio di brani di musica pop)... è comunque molto giovane (22 anni).

Decidiamo di organizzare una cena italiana per lei e Gali e così andiamo a comprare il necessario. La cucina all’ostello è attrezzata di tutto e si riesce a cucinare senza problemi. Tra un bicchiere di vino (il Timara, un misto tra uva australiana e neozelandese... più che discreto) e qualche antipasto a base di brie, portiamo nell’ostello la tipica vivacità italiana che ci rende unici nel mondo. Partecipano alla cena anche Shandra e Olga, una californiana, l’altra olandese.

La cena e la lunga coda notturna nel garage volano via piacevolmente, anche se io e Giovanni stentiamo parecchio con l’inglese e l’attenzione è quasi interamente gestita da Christian.

Mercoledì 18 febbraio - La Golden Bay

L’idea di partenza era quella di fare un po’ di kayaking da qualche parte nella Golden Bay, ma la mattina è ormai quasi passata quando siamo riusciti a scendere dal letto. Sono il primo ad alzarmi, ma questa ormai non è una novità, ed ho tutto il tempo di preparare la colazione per tutti e tre.

Sull’ampia veranda il sole batte forte e non ci lasciamo scappare l’occasione di imbrunire un po’ la pelle. L’ostello è pieno di vita ed è piacevole rimanere lì seduto ad osservare il giorno prendere corpo.

Ben oltre mezzogiorno, quando ormai il mattino si è fatto pomeriggio, decidiamo di schiodarci e puntare verso Pohara, un paesino ad una decina di chilometri da Takaka dove dovrebbero noleggiare dei kayak. Purtroppo il tempo, che prima era bello, ha deciso di volgere al brutto: nuvoloni grigi sono corsi rapidi a coprire il cielo, sospinti da un vento piuttosto forte. È proprio a causa del vento, che rende il mare eccessivamente mosso, che dobbiamo rinunciare all’idea di uscire in kayak.

La spiaggia di Pohara è comunque molto bella, larga svariate decine di metri e lunga qualche chilometro. Quando ci arriviamo il mare si sta pian piano ritirando e sta lasciando dietro di se bianche piane percorse da piccoli rivoli d’acqua. Nelle naturali depressioni rimangono delle pozze più o meno grandi, ed è qui che la sabbia satura è in grado di catturarti il piede con forza, una sorta di sabbie mobili.

La spiaggia battuta dal vento è coperta da uno strato plumbeo di nuvole che la rendono adatta ad un animo malinconico. Camminiamo verso est in direzione di un molo visibile in lontananza. Ci sono parecchi uccelli a farci compagnia, molti dei quali perlustrano minuziosamente il bagnasciuga. Dopo poco ci addentriamo in un gruppo di rocce che affiorano davanti ai nostri occhi ricche di cozze, alcune di dimensioni mostruose. Torniamo indietro solo quando il ritmo avanzante della marea rischia di tagliarci fuori dalla spiaggia.

Siamo appena a metà pomeriggio e la strada che prosegue verso L’Abel Tasman National Park ci attira particolarmente. La via rimane asfaltata finché corre parallela alla costa, poi diventa sterrata quando deve inoltrarsi nella foresta. In meno di un’ora siamo a Totaranui, sulla Tasman Bay, una bellissima baia con una spiaggia color arancio che contrasta in modo nitido con il verde scuro della foresta e l’azzurro intenso del mare. Il sole che sbuca dalle nuvole ci permette di godere al massimo dello splendore che la baia ci offre. Christian proclama ufficialmente la Totaranui beach una delle dieci più belle spiagge da lui visitate.

A Totaranui ci sono un campeggio ed un centro informazioni: è uno degli ultimi luoghi di sosta verso nord lungo il track che attraversa l’Abel Tasman National Park.

Sono ormai quasi le cinque quando arriva l’ora di tornare a Takaka per andare a fare la spesa (qui tutto chiude alle sei). Sulla strada raccogliamo due ragazzi tedeschi, in attesa di qualche anima pia. Sono in viaggio da cinque-sei mesi per l’Australasia e sono diretti proprio al nostro ostello.

Al market prendiamo il necessario per fare un buon risotto con i funghi (comprese due buone bottiglie di vino bianco), ma è solo una precauzione perché a cena siamo "ospiti" di Moran.

Ci ha preparato una pastasciutta, che non le è riuscita affatto male. La serata è stato più che piacevole, anche perché si sono uniti a noi sia i due tedeschi, sia due ragazze australiane arrivate lì in giornata. Proprio con loro mi sono lanciato nella conversazione, ovviamente aiutato dal parecchio alcol ingerito, meritandomi il plauso di Christian e l’invidia di Giovanni.

Giovedì 19 febbraio - Abel Tasman National Park

Alle nove sono già in piedi, particolarmente energico. Voglio gustarmi la colazione in veranda, baciato dai raggi del sole. Nell’ostello ferve la stessa vita del giorno precedente, chi si prepara per partire, chi arriva. Purtroppo tra i partenti ci sono i due israeliani. Il saluto con Moran e Gali è affettuoso e sincero: le due serate condivise sono state parecchio belle.

Partiti gli israeliani, rimaniamo comodamente seduti in veranda fino a quasi mezzogiorno. Poi, di colpo, prendiamo gli zaini e partiamo nuovamente per Totaranui: vogliamo camminare un po’ all’interno di quel bel parco.

La giornata è parecchio fredda e le nuvole, assenti nella prima parte della mattinata, sono già arrivate a frotte a coprire il cielo. Non poteva mancare un forte vento che sferza con forza la Tasman Bay.

In lontananza, sulla spiaggia arancione, scorciamo le due australiane dell’ostello che si raggelano i piedi nell’acqua freddissima. Noi uomini della pozzanghera Adriatico non siamo abituati a queste temperature.

Ancorato nella baia c’è un taxi che fa la spola tra le varie baie del parco. Decidiamo di prenderlo fino all’Awaroa Bay, poi da lì ritorneremo indietro a piedi. Anche se le previsioni promettono rovesci consistenti, non ci lasciamo intimorire: non saranno mica due gocce ad impedirci di godere le bellezze dell’Abel Tasman National Park.

In meno di quindici minuti siamo a destinazione. Nello scendere dalla barca ci laviamo un po’, ma abbiamo tutto il tempo di asciugarci all’Awaroa Hut, posto ad una decina di minuti dalla baia. Il luogo è carino e le nuvole ci concedono una tregua proprio nel momento di riposo. Per tornare a Totaranui dobbiamo percorrere un sentiero che passa in aree sottostanti alle maree, quindi è necessario calcolare accuratamente i tempi della traversata.

Come nostra consuetudine, li ignoriamo bellamente, tanto è colpa di Bruno. Sono le quattro passate quando ci incamminiamo verso nord, con il cielo che si fa nuovamente minaccioso, Superiamo il primo fiumiciattolo che raggiunge il mare con un bel balzo. Poi il cielo si apre lasciando cadere sulle nostre teste secchiate d’acqua. Christian non si è portato nulla d’impermeabile e si ritrova lavato dalla testa ai piedi in men che non si dica. Io e Joe, pur con le mantelle, non riusciamo che a contenere solo parzialmente l’acqua.

Troviamo momentaneo rifugio in un altro Hut, posizionato su un lato di un vasto estuario sabbioso, ora senza acqua. Il sentiero continua fino all’altro lato della foce, larga circa un chilometro. È questo tratto che dobbiamo attraversare velocemente prima che la marea lo sommerga. Dobbiamo muoverci, perché il mare sta ormai avanzando.

Quando ci muoviamo la pioggia intensa si trasforma in una fine pioggerellina, che non ci infastidisce più di tanto. A metà della foce però troviamo un fiume più piccolo che corre verso il mare, e nemmeno la presenza di un guado. Una rapida occhiata d’intesa ed attraversiamo il fiume con l’acqua che ci arriva fino alle ginocchia. Fanno seguito matte risate per l’avventura che stiamo vivendo e per la capacità di riuscire a fregarcene altamente di tutte le cose negative che possono capitarci: siamo liberi come il vento che ci soffia in faccia e nulla può incrinare il nostro felice stupore.

La foresta al di là della foce è bella rigogliosa e numerosi rivoli d’acqua scendono verso il mare.

Cominciamo a camminare a ritmo sostenuto e superiamo tutte le salite senza un apparente sforzo. Troviamo alcune belle spiagge, ma è ripreso a piovere e dobbiamo cercare spesso riparo nella foresta.

Sono quasi le sette quando riconquistiamo Totaranui Beach, che è dominata a quell’ora da uno splendido arcobaleno. Ci riappropriamo della macchina con gioia e con la consapevolezza di esserci divertiti un mondo.

Rientrati all’ostello, i volti nuovi erano veramente molti: altri tre ragazzi israeliani (due ragazze e un ragazzo), una ragazza tedesca di nome Jules ed una cicloturista inglese di nome Niki.

Provati dalla giornata, siamo stati attratti dalla "spa pool" (vasca idromassaggio) che faceva bella mostra di se in un angolo del giardino. C’erano dentro a lessarsi già le due australiane, ai quali si è aggiunto inizialmente solo Christian. Quando le australiane se ne sono andate, le abbiamo sostituite io e Niki. La ragazza inglese, in viaggio solitario in bicicletta, vagava per la Nuova Zelanda ormai da due mesi. Era una tipa simpatica e con una bella parlata di puro inglese, alle mie orecchie profane la più bella cadenza tra gli anglofoni. Infine si è aggiunta in acqua anche Jules, una bella ragazza tedesca (in costume da bagno a due pezzi fa la sua porca figura) anche lei in viaggio solitario tra l’australasia ed il sud-est asiatico.

Per cena abbiamo voluto preparare un risotto ai funghi. Anche se tutti avevano già mangiato, siamo riusciti a convincere Jules, Niki ed i due ragazzi tedeschi a mangiare un po’ con noi. La preparazione del risotto ha attratto la curiosità di molti di loro e mi sono esaltato nel dimostrar loro la bravura in cucina dell’italiano medio.

Dopo cena, ormai come consuetudine, ci siamo spostati tutti nel garage. La bellezza di Jules mi ha attirato, è così che ho iniziato a chiacchierarci cercando di estrarre il mio inglese migliore. Abbiamo fatto coppia a scramble (scarabeo) dove, ovviamente, non potevo esserle di grande aiuto: abbiamo inesorabilmente perso.

Poco prima di mezzanotte abbiamo cominciato a perdere i primi pezzi: prima se ne sono andate le due australiane, poi Niki e via di seguito fino a Jules. Siamo rimasti imperterriti solo noi, i due giovani tedeschi e due dei tre israeliani. Abbiamo fatto così amicizia con Michali, una ragazza mora dai bellissimi occhi perennemente indagatori.

Erano appena passate le due quando sono stato io ad alzare bandiera bianca. Gli altri mi hanno seguito dopo un’ora.

Venerdì 20 febbraio - In compagnia di Jules

Preferisco alzarmi appena possibile per godermi la colazione. Il momento di starmene lì in veranda a crogiolarmi sotto i raggi del sole è diventato ormai una consuetudine a cui non saprei rinunciare.

La giornata è per lo più priva di nubi. Ma è sempre stato così nei giorni scorsi, per poi diventare rapidamente più brutto da mezzogiorno in poi.

Per le 10.00 liberiamo i nostri letti, ma rimaniamo seduti in veranda a chiacchierare con la padrona ed ad assaporare ancora un po’ il clima piacevolmente rilassante dell’ostello. Anche Jules deve lasciare il Kiwiana per iniziare già in serata a lavorare in un bar in centro a Takaka. Ha però tutta la giornata libera e così decide di unirsi a noi, che abbiamo intenzione di partire verso sud solo sul tardi.

La prima meta del giorno è la consueta Pohara: l’idea è quella di prendere un po’ di sole in spiaggia. Purtroppo spira un vento troppo forte e l’acqua, oltre che mossa, è freddissima. Rimaniamo solo qualche attimo ad osservare la bellezza della spiaggia, poi voltiamo la macchina e puntiamo alle Waikoropupu Springs, delle sorgenti poco a nord di Takaka. Sono le sorgenti d’acqua dolce più estese dell’intera Nuova Zelanda, considerate tra le più limpide al mondo.

Un sentiero circolare diparte dalla strada e lambisce le rive delle sorgenti e dei fiumi che da loro nascono. L’acqua è davvero purissima e di un color azzurro intenso, splendido a vedersi. Il cielo continua a rimanere altrettanto limpido ed il sole picchia forte sulle nostre teste. Jules chiacchiera soprattutto con Christian, ma qualche volta io e Joe riusciamo ad entrare nel discorso, o almeno a capire cosa vuole dirci.

Salutiamo Jules davanti al café dove prenderà servizio circa a metà pomeriggio: è ora di ripartire verso sud. Giungiamo a Nelson da lì a poco.

Siamo tutti e tre parecchio stanchi e sogniamo di andare a dormire piuttosto presto. Perdiamo un bel po’ di tempo per trovare un posto da dormire e poi ci lanciamo verso la spiaggia dove avevamo giocato a calcio con l’idea di goderci un po’ l’ultimo sole della giornata. Purtroppo soffia un vento troppo forte e la serata si sta facendo fresca.

Per cena scegliamo un buon ristorante indiano (ottimo) e poi girovaghiamo un po’ per il centro. È così che ritroviamo, con grande sorpresa, Moran e Gali e con loro andiamo a bere qualcosa. In giro per le strade c’è parecchia gente e la serata si sta animando. Ma la stanchezza incombe su di noi, e così andiamo tutti a dormire che non è nemmeno passata la mezzanotte.