The Down Under

Dal 3 febbraio al 6 marzo 2004

di Carlo Camarotto

Il monte Cook
Fox Glaciar
Il Mitre Peak
Milford Sound
Queenstown

Tappa numero 6, Dal 27 febbraio al 2 marzo 2004

West Coast e Southland

Venerdì 27 febbraio - TranzAlpine

In stazione troviamo una lunga fila di persone intenta a salire sul treno. Non ci resta che accodarci ed aspettare. Ci assegnano due posti nella prima carrozza: i sedili sono comodi e le vetrate sono veramente ampie. Il primo terzo della carrozza è disegnato come un salotto, con alcuni tavolini centrali ed i posti a sedere disposti tutto intorno.

Partiamo in orario, con noi tre coppie di anziani americani che in breve si appropriano del salottino. Dormo per tutta la piana del Canterbury e mi risveglio solo quando cominciamo a salire. Passiamo in rassegna valli anguste percorse da fiumi turbolenti, teatri naturali più ampi dove l’uomo si è insediato con il pascolo, rive lacustri caratterizzate da una selvaggia ed ancora intatta vegetazione e passi montani ammantati da boschi di conifere. Il paesaggio che scorre a lato del treno è davvero bello, ma non credo valga la pena di spendere più soldi per prendere il treno, visto che il viaggio in corriera dovrebbe correre lungo la strada che abbiamo quasi sempre avuto a lato.

Arriviamo a Greymouth, sulla costa ovest, che sono appena passate le 13,00. Il tempo, pur non splendente di sole, non pare malaccio. L’ostello è vicino alla stazione e lo raggiungiamo in breve. È uno dei più belli tra quelli che abbiamo finora incontrato: racchiuso in una casa di legno in stile vittoriano, presenta ogni stanza arredata e dipinta con riferimento ad un particolare animale, da cui poi prende il nome. Il Noah’s Ark è poi ricco di sale comuni, tra cui una cucina dotata di ogni utensile e un’ampia sala TV ricca di divani.

A noi capita la Sheep Room e ne siamo più che contenti: a dispetto del kiwi, il vero simbolo della Nuova Zelanda è proprio la cara e vecchia pecora. Giovanni è totalmente innamorato dell’ostello e lo perlustra da cima a fondo scattando un’infinita di foto.

Prima che gli uffici turistici chiudano (di solito alle cinque), ci rechiamo in centro per portare avanti la prassi di prenotare il trasporto e dei posti letto per i primissimi giorni futuri. È così che bisogna fare in Nuova Zelanda, soprattutto se privi di un proprio mezzo di trasporto, e ce ne siamo fatti una ragione (però è ugualmente un modo troppo "occidentale" di viaggiare ed un po’ di gusto ce lo toglie di sicuro).

Negli uffici dell’i-site, facciamo quattro chiacchiere con la giovane bionda che lavora al di là del bancone. È anche lei innamorata dell’Italia e della sua lingua, che però non riesce ancora a parlare. Si dimostra gentilissima nel provvedere a tutte le nostre richieste.

Greymouth è famosa, oltre che per essere il punto di arrivo del TranzAlpine, per la lavorazione della giada. Ci sono un mucchio di laboratori che espongono dei veri capolavori di artigianato. I prezzi sono abbordabili, probabilmente i più bassi nel Down Under.

All’ora di cena inizia a piovigginare, una pioggia talmente fine che ti bagna senza che nemmeno te ne accorga. Le strade del paese sono deserte già dalle otto, quindi non ci rimane che tornare all’ostello. Anche qui la vita non dura poi molto, e dopo quattro frasi scambiate con due compagne di stanza, ci si concede al letto.

Sabato 28 febbraio - Tanta acqua

Svegliarsi presto è ormai una triste consuetudine, ma la corriera per Fox Glaciar non può di certo aspettare i nostri comodi. Dal cielo continua a cadere una pioggia finissima, quasi spruzzata con un nebulizzatore.

La giornata peggiora mentre procediamo verso sud. L’acqua comincia a venire giù come si deve e ci rendiamo conto a tutti gli effetti di essere nella piovosa West Coast dell’isola del sud.

Davanti ai finestrini si alternano i consueti pascoli, soprattutto di bovini, e boschi pluviali molto fitti e ricchi di felci arboree. La strada è spesso tortuosa, a parte quando percorre le poche piane che dividono le Southern Alps dall’oceano. Spesso attraversiamo dei ponti su fiumi limacciosi che scendono impetuosi dalle montagne, un breve percorso prima di raggiungere la libertà in mare.

Impieghiamo solo la mattinata per giungere a destinazione. Fox Glacier è un piccolo villaggio dalla parvenza alpina, appoggiato ai primi versanti delle montagne. Nelle sue vicinanze si trova la facciata anteriore del ghiacciaio omonimo, una lingua di ghiaccio che scende verso valle e che ha scavato nei millenni una valle spigolosa ed affascinante. Altra particolarità della zona è il lago Matheson, uno specchio d’acqua racchiuso tra dolci colline moreniche e circondato da un fitto bosco; dal lago si possono ammirare, se il tempo lo permette, le montagne più alte della Nuova Zelanda, il monte Cook ed il monte Tasman, che si rispecchiano nelle sue acque.

La piccola cittadina vive essenzialmente dello sfruttamento turistico delle sue bellezze naturali.

La corriera ci deposita direttamente al campeggio che avevamo prenotato (Fox Glacier Holiday Park), ma non possiamo entrare in stanza prima delle due.

Per dormire ci hanno assegnato una casetta prefabbricata con due letti a castello ed una stufetta appesa al muro per combattere il freddo e l’umidità che aleggiano nell’aria. Con noi c’è una coppia di cicloturisti olandesi, carichi di borse e attrezzature all’avanguardia.

Fuori la pioggia persiste, ma pare ad un tratto diminuire. Decidiamo così di partire per il lago Matheson. La strada che vi conduce è lunga circa sei chilometri ed è praticamente priva di traffico. Se non piovesse sarebbe bellissimo camminare tra i pascoli umidi, le vacche e le pecore. Purtroppo a metà strada siamo colti in pieno da una quantità pressoché infinita di acqua che ci piomba addosso dal cielo. Mi rendo allora conto che i miei indumenti impermeabili non sono poi così impermeabili. Anche Joe si ritrova in breve fradicio dove la mantella non può coprirlo.

Dopo l’iniziale disappunto, la prendiamo sul ridere e zampettiamo sereni verso la meta prefissata. Vi ci arrivo con le maniche della giacca e le scarpe che pesano qualche chilo in più ed una sensazione di umido da far schifo.

Il lago è carino, ma le nuvole basse coprono completamente le montagne ed il grigio del cielo è un velo che ricopre mestamente tutto il paesaggio.

Quando torniamo sui nostri passi è già ora di cenare. Non passiamo nemmeno per il campeggio, perché poi non saremo più usciti di certo, e quindi puntiamo al ristorante ancora completamente bagnati. Scegliamo un locale che avevamo visto all’arrivo dove la presenza di belle cameriere è quanto mai invitante.

Prima di entrare strizziamo lo strizzabile e diventiamo di colpo più leggeri; ad ogni passo le scarpe continuano comunque ad emettere squittii, ma mi comporto come se nulla fosse. Anche se l’ambiente non è il massimo dell’informalità, con la solita nonchalance che ci contraddistingue riusciamo a far passare il tutto come fosse naturale e non badiamo più di tanto agli sguardi incuriositi degli altri avventori.

Finita la cena, e rivestiti con gli indumenti bagnati che avevamo lasciato fuori dal locale, riusciamo in strada il tempo necessario per entrare in un pub sovraffollato dove tutti, indistintamente, trincano allegramente. Non sono nemmeno le dieci, ma già più di qualcuno mostra chiari segni di squilibrio alcolico. Poco prima di finire la nostra prima partita a biliardo, un tipo alto, giovane, dinoccolato e un po’ brillo, ci si avvicina e, appoggiata una moneta sulla sponda, ci chiede se vogliamo giocare contro di lui ed un suo amico. Deve essersi buttato in gola ben più di un litro di birra ed ha incollato al viso un sorriso ebete. Parla come un vero neozelandese, quindi è difficile capire quello che dice, ma a suon di gesti riusciamo anche a farci quattro chiacchiere. Il suo amico è un ragazzo alto e grosso, anche lui ubriaco, però più tranquillo e sornione: si stupisce molto nel sentirci parlare in italiano, una lingua di cui non ha nemmeno un’idea della provenienza.

La partita non ha una grande storia perché loro sono davvero troppo ubriachi. Appena possiamo, però, leviamo le ancore: il coltello "scuoiapecore" che il primo neozelandese ha estratto con vanto dall’apposita fondina ci ha un po’ intimoriti. Poco prima di finire la partita, una tipa ormai all’ultimo stadio alcolico si è messa a fare capriole sul tavolo da biliardo, rischiando più volte di finire malamente di sotto.

Domenica 29 febbraio - Il Fox Glacier

Gli olandesi lasciano la stanza poco prima delle nove e noi rimaniamo ammantati nel caldo abbraccio del sacco a pelo ancora per un bel po’. Fuori la giornata è uggiosa e non ci vuole molto perché inizi nuovamente a piovere, una pioggerellina fine a cui ormai abbiamo fatto l’abitudine.

Quando decidiamo che è venuta l’ora di affrontare la giornata, ha smesso di piovere, ma il cielo è ancora dominio incontrastato di uno strato uniformemente grigio di nuvole. Dopo colazione si parte verso il Ghiacciaio.

Per arrivarci bisogna percorrere prima un paio di chilometri lungo la strada principale che conduce verso sud, finché non si giunge all’ingresso del parco che ospita il gigante di ghiaccio. Da qui ci vogliono quattro chilometri per arrivare al parcheggio che dista un quarto d’ora dalla facciata anteriore del Fox Glacier. La vegetazione ai lati della strada è da subito rigogliosa ed impenetrabile, un muro verde che si alza per cinque-sei metri appena un metro a lato dell’asfalto. Non passano molte macchine e la strada è praticamente tutta nostra.

L’ingresso del parco è posto in prossimità del ponte che scavalca l’impetuoso torrente (con già le dimensioni di un fiume) che fuoriesce dal ghiacciaio. Tutta la valle è rivestita di una foresta pluviale verdeggiante. Alcune basse nuvole si muovono calme sopra gli alberi e rendono il paesaggio surreale.

A metà della strada del parco c’è una deviazione che conduce ad un belvedere dirimpetto al ghiacciaio. Bisogna attraversare il fiume su un ponte traballante di legno (la forza delle acque che, roboanti, scendono a valle, è impressionante) e percorre un sentiero ben tracciato all’interno di un bosco da favola (l’abbiamo subito battezzato Lothlorian, il bosco degli elfi). Tutti gli alberi sono ricoperti da fili di muschio che pendono umidi verso terra, mentre le felci arboree crescono rigogliose verso il cielo; la luce stenta a farsi spazio nel sottobosco e vi giunge con una forte carica verde, rendendo tutto magico. È un sentiero sconsigliato da percorrere durante e dopo forti piogge, perché bisogna guadare alcuni torrenti che potrebbero essere eccessivamente ingrossati.

Non ci abbiamo fatto più di tanto caso e li abbiamo trovati effettivamente ricchi d’acqua, ma non impossibili da attraversare. Dopo un’ora di cammino siamo finalmente giunti al punto panoramico (Chalet Lookout), una terrazza di legno che si protende dal lato della montagna proprio di fronte al ghiacciaio. Questo risplende di una strana luce azzurra che risalta quando qualche timido raggio di sole riesce a colpirlo. Da lassù, le persone che camminano alla sua base paiono piccole formiche operose, mentre il fiume che sgorga dalle sue fauci sembra una lunga lingua color caffèlatte.

È bello osservarlo da lì, soprattutto perché lo si vede in buona parte della sua grandezza, ma la voglia di poterlo toccare c’è, eccome. Ripartiamo quindi verso valle, tornando sui nostri passi e riprendendo la strada del parco in prossimità del ponte. Più ci avviciniamo al ghiacciaio, più il paesaggio assume i contorni di una terra nuova, in continua trasformazione: detriti si alternano ai lati della strada e le pareti di roccia si fanno via via più ripide ed imponenti. A meno di un chilometro dal fronte del ghiacciaio la vegetazione praticamente scompare; rimane solo il rombo del fiume che ci scorre a lato. L’aria si fa più fredda ed umida.

Dal parcheggio tutti devono proseguire a piedi per un sentiero a tratti sconnesso, ricco di cartelli di pericolo. C’è un mucchio di gente, tutti arrivati lì con la macchina o con la corriera. Siamo gli unici che ci stanno arrivando a piedi e sicuramente gli unici che prima sono arrivati fino al belvedere. Queste cose mi fanno sempre un gran piacere.

A duecento metri dal ghiacciaio la strada è sbarrata. C’è però un gruppo di persone con una guida proprio sotto la facciata anteriore, quindi ignoriamo i segnali di pericolo e ci avviciniamo al Signore di ghiaccio per toccarlo. Rimaniamo comunque vicini alla guida (sprovveduti fino ad un certo punto).

Adempiuto al compito che ci eravamo prefissati, torniamo sui nostri passi e giungiamo in paese che è già ora di cena.

In stanza ci sono ad aspettarci due ragazze israeliane, con cui conversiamo un po’ prima di andare a dormire. Siamo parecchio stanchi.

Lunedì 01 marzo - Queenstown

La corriera per Queenstown è fissata alle otto e mezza. Il tempo è lo stesso dei giorni precedenti, anche se la pioggia è solo accennata. Il viaggio verso sud dura in totale quasi otto ore, ma le fermate per sgranchire le gambe e per osservare alcune bellezze naturali sono molteplici. Con il prosieguo del viaggio il cielo si fa sempre più sereno ed il sole ne diventa l’assoluto padrone dopo la fermata ad un allevamento di salmoni. L’allevamento è costruito su una palafitta sopra le vasche dei salmoni ed ha anche un bel luogo di ristoro in cui si fermano praticamente tutte le corriere che passano da quelle parti. Su uno scaffale vendono anche del cibo da lanciare ai pesci: furbi i padroni dell’allevamento, fanno pagare il cibo per i salmoni direttamente allo sciocco turista che si diverte un mondo a vedere i pesci contorcersi freneticamente per cibarsi.

La seconda fermata avviene in corrispondenza di una vasta valle pianeggiante racchiusa tra versanti montani coperti di pascoli. In lontananza appaiono nitidi i picchi innevati delle Southern Alps. Prima di raggiungere Queenstown, in cui giungiamo poco dopo le cinque, costeggiamo anche una serie di stretti laghi glaciali su cui si riflettono vanitose le montagne dall’altro lato delle acque rispetto alla strada. Il posto è veramente da favola... imperdibile.

Giunti in paese, la corriera inizia a fare i soliti giri per portare davanti all’ostello ogni singolo viaggiatore. I giri sono spesso interminabili e snervanti per chi, come noi, ha la sfortuna di essere l’ultimo a scendere. Comunque alla fine, quasi mezz’ora dopo, veniamo depositati in prossimità del nostro ostello, il Pine Wood Lodge, una insieme di casette indipendenti, ognuna con varie camerate, una cucina ed una sala comuni. In quello che era un vecchio fienile è stata ricavata un’ampia sala TV con l’immancabile biliardo.

La nostra stanza è carina, ma sovraffollata. Conoscere delle persone diventa quasi naturale, visto il contatto più che stretto. Facciamo subito conoscenza, difatti, con lo svizzero che dormirà sopra di me e con due ragazzi inglesi che lo accompagnano.

Il centro non è lontano, poco più di dieci minuti a piedi. Siamo qui per andare a vedere i famosi fiordi del Southland: alcune agenzie offrono degli sconti per i backpackers, così arriviamo a pagare 145 $ con incluso un piccolo snack durante la crociera sul Milford Sound. All’ufficio turistico incontriamo i due ragazzi tedeschi di Takaka: sono arrivati fin quaggiù in autostop ed hanno appena provato l’ebbrezza di una salto dal Nevis Highwire (159$ per un salto di 134 metri; Queenstown si autodefinisce la "Capitale mondiale delle attività avventurose", il bungee jumping in primis).

La sera intanto si fa piuttosto fresca, e ciò ci ricorda quanto ci siamo spinti a sud. Per cena optiamo per la cucina thai, soprattutto perché la cameriera, una ragazza mora dai capelli rasta, è veramente molto carina.

Tornati all’ostello, troviamo la sala TV gremita di persone, tutte intente a vedere la serata degli Oscar: Peter Jackson fa incetta di statue, ed essendo neozelandese non possiamo che essere in parte partecipi del suo successo.

Martedì 02 marzo - Milford Sound

Non sono nemmeno le sei che la nostra stanza prende vita. Quasi tutti iniziano a preparare gli zaini appena la luce fa capolino dalla finestra. La confusione è tanta ed il nostro sonno irrimediabilmente rovinato. Quando tocca a noi alzarci, siamo entrambi assonnati e seccati.

Come sempre il pulmino ci viene a raccogliere sulla soglia della camera. Tra i nostri compagni ci sono alcuni giapponesi, una coppia di olandesi ed una serie di signore di mezza età. Per arrivare al Milford Sound ci servono circa quattro ore, anche perché costretti a passare per Te Anau, la principale località turistica del Southland (Queenstown è ancora considerato Otago) e principale porta d’accesso del Fiordland, allungando quindi di molto il tragitto.

Inizialmente si corre verso sud costeggiando i Remarkables (le bellissime vette aguzza che sovrastano Queenstown) ed il lago Wakatipu. I paesaggi sono belli e selvaggi ed è un piacere rimanere con il naso incollato al finestrino ad ammirarli. Ogni tanto l’autista si attacca un microfono al collo e ci parla di qualcosa che stiamo attraversando, purtroppo con il suo inglese praticamente incomprensibile; non sono poche le volte che ci concede anche di scendere dal pulmino per ammirare le attrattive del luogo. Tra i ricordi più belli c’è un’antica valle glaciale ricoperta da un uniforme e vasto prato di graminacee, bronzee spighe mosse dal vento e racchiuse tra verdi montagne.

Ci fermiamo anche in una bella forra, levigata nei secoli dalla forza delle acque di un piccolo torrente. Dalla strada ci si arriva con una breve camminata tra sentieri immersi nella foresta e passatoi di legno opportunamente costruiti sopra le acque. Unico inconveniente, i terribili pappataci succhia sangue.

Dopo una lunga e stretta galleria, inizia la discesa verso il fiordo. Vi ci arriviamo che il sole splende in cielo e sono da poco passate le due. Una lieve brezza ci rinfresca la pelle, le poche nuvole corrono veloci nel cielo e l’aria che respiriamo è veramente pulita.

Il porticciolo su cui ci sistemiamo è sovrastato dal Mitre Peak, uno splendido pinnacolo roccioso che si eleva per oltre 1600 metri sopra le nostre teste, dominando tutto il fiordo. Quando ci ritroviamo con la barca in mezzo alle immense ali di roccia, lo spettacolo che ammiriamo è da mozzare il fiato. Le montagne ci sovrastano facendoci sentire piccoli piccoli; sembrano vestirsi d’ombre per oscurare ancora di più il cielo con la loro mole. Tutto quanto qui è umano, è minuscolo e superfluo. Ci sono solo le montagne e le acque scure che accarezzano loro i piedi.

Leggeri rivoli d’acqua si gettano a perdifiato lungo le pareti verticali di roccia. Quando piove, ci raccontano, verso il fiordo scendono veri e propri fiumi, coprendo tutti i versanti d’acqua.

Continuiamo il nostro viaggio verso l’oceano, tenendoci sulla sinistra del fiordo. Navighiamo molto vicini alla sponda, intorno ai dieci-venti metri, ma nel video interno della barca si segnala già una profondità di oltre 100 metri. Ogni piccolo cambio di prospettiva, ogni minima variazione della luce, ogni nuovo scorcio di roccia nera, riesce a rapirmi e mi induce a scattare milioni di fotografie.

Arriviamo solo in vista del mare aperto, prima di tornare verso l’interno percorrendo l’altro lato del fiordo. Io e Joe rimaniamo per tutto il tragitto del ritorno a poppa, dove battono violenti i raggi del sole: ci godiamo la maestosità di questo anfiteatro naturale in quasi perfetto silenzio. È valsa veramente la pena venire fin quaggiù... anche se c’è un po’ di rammarico per averci dedicato così poco tempo.

Appena scesi a terra dobbiamo infatti ripartire veloci verso Queenstown. L’unica sosta ci viene concesso per visitare un piccolo giardino a Te Anau ricco di voliere. Abbiamo così modo di vedere molti uccelli endemici della Nuova Zelanda.

Nel percorso fino a Queenstown il tempo è riuscito a guastarsi: dal un cielo privo di nubi ad un forte acquazzone in meno di un’ora. Intanto il sole è scomparso all’orizzonte lasciando in eredità una serata fredda e ventosa.

Solita cena thai, seguita da un giro per le strade ricche di turisti del paese. Nulla ci invita a rimanere fuori e presto ci ritiriamo in ostello.