Nato una seconda volta

Agosto 2005

di Cecilia Carattoni

Mappa del viaggio

Presentazione, Mappa del percorso

burkina_1 Un piccolo racconto africano scritto da una cara amica. In poche righe Cecilia è riuscita a raccontare molto dell’Africa che anch’io ho vissuto, quell’angolo di mondo incastonato tra l’aridità del deserto del Sahara e la malaria delle foreste tropicali africane: il Sahel francofono, un territorio capace nello stesso di ammaliare e stordire, di attrarre e respingere. L’Africa nera come pochi hanno avuto l’onore di conoscere.
Brousse
Falaise de Bandiagara
Arte Dogon
I Tellem
Djenne
Niger
Volti africani

Inizio del racconto

burkina_1

Nato una seconda volta

Su un tetto di terra e sterco Sami “Ghelawe” Palm, il medico delle erbe, aspettava. Sempre si aspetta in Africa. Non c’è angolo, via, bottega o villaggio in cui non si respiri aria di interminabile ed inspiegabile attesa. Volti serafici che ti osservano, ti scrutano dalle loro sedie di paglia sui bordi delle strade, appoggiati ai muri, seduti sui marciapiedi, dietro alle scrivanie dei loro bureaux. Aspettano che tu li ricarichi, che gli offra un’attività, qualcosa da fare per te o per chiunque altro. O forse aspettano che finisca il caldo asfissiante, umido, fermo, stagnante. Forse osservano l’aria talmente spessa da essere visibile, o pensano, o ti leggono negli occhi. Forse dormono ad occhi aperti. Aspettando. Forse aspettano che smetta di piovere. Oppure che piova se è la stagione secca.

Sami “Ghelawe” Palm invece aspettava solo il gruppo degli amici bianchi che a sua insaputa, in un barattolo di automobile a suo tempo gloriosa, attraversavano incauti la savana, progettavano una breve tappa in Mali, ma non consideravano che breve non sarebbe stata.


Non è vero che le grandi città africane non rappresentano l’anima del continente, ne sono invece uno dei mille cuori pulsanti: il più contraddittorio, a tratti il più straziante, terrificante, senz’altro il più europeo, il più caotico e convulso. Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, è uno di questi cuori, spaccato da enormi boulevards alla francese, congestionati da un denso traffico fatto di bici, motorini, stravaganti mezzi ed automobili che si pensava non esistessero più.

Gli umidissimi quarantacinque gradi che ci accolgono all’atterraggio a Ouaga, non sono un deterrente: dopo un paio di giorni trascorsi in città, a discutere con produttori di marmellate e cercare invano contenitori per il burro di karité, decidiamo che prima di raggiungere il villaggio di Dolo, dove l’amico Sami sta per essere “iniziato” alla professione di medico tradizionale, possiamo permetterci una deviazione in Mali.

Nell’attesa che apra l’ufficio dove ricevere l’epico timbro per il visto, un’assopita signora del bar accanto ci propone una lista di piatti che prevede omelettes e panini all’omelette. Si opta per un ottimo misto. Con altrettanta sonnolenza il funzionario del consolato ci concede il visto dopo diplomatiche insistenze di una componente del nostro gruppo variegato.

Le strade verso il Mali non sono proprio agevoli. Passata la frontiera poi peggiorano. A causa delle piogge si confondono col resto della savana, diventano di fango e le pozze d’acqua si trasformano in pestiferi scherzi per i rari malcapitati passanti, che spesso sono mercanti su due piccolissime ruote sommersi da una montagna di polli.

Le strade del Mali sono facili da perdere. E noi, la nostra, l’abbiamo persa ben presto.

La consueta cordialità africana permette di non perdersi d’animo, e dopo bizzarre indicazioni sputacchiate dagli abitanti in cui ci siamo imbattuti, troviamo vitto e alloggio nella sperduta Madougou, sul comodo tetto di una casetta di terra. È altamente consigliato dormire sui tetti dei villaggi africani, sia per cielo enormemente stellato che non si trova altrove, sia per il risveglio allietato dalle sonorità di una vita e di un lavoro cominciato già da diverse ore.

Scesi dal nostro giaciglio sopraelevato, dopo vari convenevoli e infiniti scambi di doni, ripartiamo ritrovando il nostro punto di riferimento, la maestosa falesia dove sorgono i villaggi dei Dogon, popolazione dalle origini dibattute.

I ricordi poi si mescolano in una confusa successione di arditi trekking piovosi fra villaggi di montagna, approcci troppo diretti col fiume Niger, turbolenti virus intestinali, fugaci trattative con i tuareg che dal deserto si avventurano nelle caotiche città piegandosi alle inesorabili leggi di mercato, visite febbricitanti ai mercati e alla splendida moschea di Djenné, il sovrumano capolavoro fatto di terra. Poi le città di Mopti e San.

Infine l’automobile che ci abbandona tragicamente. Seguono ore interminabili di assistenza agli interventi di spartana chirurgia meccanica dei vari tecnici solerti che la operano. Provvisoriamente funzionante, l’aitante Mitsubishi continua ad accompagnarci lungo la strada sterrata verso il Burkina, verso il villaggio dell’amico Sami.

Qui giunti, non passi per la testa a nessuno di andare svelto a dormire. Quando si arriva in un villaggio africano dove da giorni ti aspettano con ansia dopo cattivi auspici, negativi presagi e conseguenti sacrifici di polli agli antenati affinché ti proteggano, si festeggia il miracoloso arrivo. Presentazioni, cibo, ringraziamenti, balli, saluti, ancora cibo, musica, complimenti a Sami quasi-medico, musica. Dopo la concitata accoglienza, buonanotte. (Si ringraziano i suddetti polli e gli antenati per la protezione).


Sami "Ghelawe" Palm aveva così smesso di aspettarci. Stava sul tetto dove era tenuto a rimanere per quattro giorni, mentre amici e parenti invasati vi danzavano per romperlo e poi ricostruirlo secondo tradizione. Attendeva che salissero gli anziani per esaminarlo e proclamarlo finalmente medico tradizionale, curatore con le erbe, destino che gli toccava sin da tenera età. Ghelawe, ovvero “rinato” in lingua jan, era diventato il suo secondo nome dopo essere scampato alla morte da piccolissimo grazie alle cure degli sciamani del villaggio e di un serpente gentile.

Circondato da feticci e bestie immolate emanava una certa sacralità accresciuta dal suo stesso nome, dalla sua storia, dalle sue storie, dalle danze frenetiche attorno al suonatore di balafon, dall’inebriante chapalò, bevanda alcolica a base di miglio, venerabile  e funesta allo stesso tempo. La suggestione è forza o debolezza della mente umana?

A quesiti sui massimi sistemi suscitati dal mistico evento si alterna una quotidianità a noi sconosciuta, senz’acqua corrente né elettricità: i risvegli ormai abituali sul tetto, l’acre odore di tò (polenta al miglio, per nulla gustosa), il profumo dei polli arrostiti, i preparativi dei pranzi e delle cene, gli assalti dei bambini curiosi e speranzosi, le donne che da baccanti si trasformavano in mogli troppo umili, i mariti che continuavano a bere il loro consueto chapalò.

I villaggi sono un altro dei famosi cuori africani.


Poi il finale a Bobo-Dioulasso, grande città pulsante e dinamica, ma solo dopo un viaggio turbolento, l’ennesima rottura dell’auto nella savana e l’attesa notturna dei nuovi miracolosi meccanici che con un macchinoso stratagemma ci permettono di arrivare in città.

A Bobo un taxi già straripante di umanità ci carica e quasi per caso ci troviamo al centro culturale Siraba, in un vortice di gente, creatività e zampillanti muscoli di ballerini virtuosi. Poi Jaki, l’improbabile cicerone in rilassatissimo stile jamaicano che ci guida nell’escursione alle cascate di Banforà. Un bagno rilassante. Pericolo insetti sottocutanei scampato. La sfrenata ricerca di animali selvaggi. Vana. Perduta l’occasione di vedere gli ippopotami. Pazienza. E i mercati, i bruchi arrostiti, milioni di banane, la preziosa acqua, i manghi, i tessuti, le collane, le estenuanti contrattazioni. Sfiniti. Ma ancora danze, musica, cibo, cordialità, caldo, pioggia e Africa. Tanta Africa.