Un'esperienza in India

Dal 07 dicembre 2009 al 5 gennaio 2010

di Carlo Camarotto

CMH Rd
Main channel
Attara Kacheri
Vidhana Soudha
Lalbagh Botanical Gardens

Tappa numero 1, Dal 7 al 10 dicembre 2009

Bangalore
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Lunedì 7 dicembre – Indiranagar

Per Moravia nel 1937 la prima impressione dell’India fu un’esplosione di colori dietro le grate di ferro che dividevano l’aerea di sbarco del porto di Mumbai dalla strada, un arcobaleno di sari variopinti da cui si protendevano mani lamentose bisognose di carità. Uno sguardo, un semplice istante, e qualcosa di prepotentemente esotico lo aveva già ammaliato.

Sono passati settanta anni e le cose non possono che essere cambiate. Io non sono giunto in India attraverso un preparatorio, lungo e faticoso viaggio in nave, ma con un ben più semplice ed omologato trasporto aereo. E tutti gli aeroporti del mondo s’assomigliano. Il mio primo sguardo scorre su un mondo che non ha nulla di caratteristico. Se si potessero togliere per un istante i baffi agli uomini, diventerebbe assai difficile capire in che parte del mondo sono finito. Ormai è quasi dappertutto così, la chiamano globalizzazione.

Ed è per questo che per cominciare a vedere qualcosa che odora d’India, devo aspettare d’incunearmi lentamente nella città a bordo di un taxi verde acquamarina guidato da un tassista di fiducia di Christian. Manjunat è un tipo silenzioso, almeno nei miei riguardi, e perciò ci mette anche lui un po’ di tempo per scrollarsi di dosso quella patina d’indiano globalizzato che ai miei occhi appare così evidente. Da metà percorso in poi (l’aeroporto dista circa quaranta chilometri dal centro città), quando il traffico è già diventato caotico, prende in mano il telefonino e comincia a parlare concitatamente in kannada, emettendo quei suoni strozzati pronunciati con movimenti minimi della bocca tipici delle lingue indiane. È parimenti preso dalla guida e dalla conversazione, che procedono all’unisono in mezzo al burrascoso traffico in cui ci immettiamo.

La prima impressione di un’India che comincia finalmente ad apparirmi estranea è che l’anarchia spadroneggia. Non ci sono regole stradali che gestiscono il caotico flusso di mezzi. Auto economiche, camion puzzolente, moto rombanti, scattanti tuk-tuk (piccole apecar per il trasporto di persone) e impavidi pedoni, si alternano sull’asfalto in un ballo sfrenato cadenzato dal perenne suono del clacson, una taranta che coinvolge tutti gli attori presenti sulla strada. I mezzi s’insinuano in ogni spazio utile, per nulla timorosi delle conseguenze del loro gesto, solamente sicuri della giustezza delle loro idee e della forza del loro clacson. Ogni singolo percorso si unisce agli altri formando un’intricata maglia di traiettorie impazzite, che riveste l’asfalto in ogni sua più piccola porzione.

In tutto ciò le cose che sorprendono sono due. La prima è che gli incidenti non accadono in continuazione. Sicuramente ce ne sono, ma le macchine sembrano perlopiù prive di bozze e ammaccature. La seconda, a mio modo di vedere più importante, è che essere costretti in tale bolgia disorganica non sembra alterare e innervosire più di tanto i partecipanti. Non ci sono segni di irritazione, quelli che si vedono chiaramente in qualsiasi italiano chiuso nel traffico. Qui il viso permane rilassato e il massimo che ci si permette nei confronti di un individuo reo di qualche azione imprudente è un veloce e superficiale sguardo. La propensione a non irritarsi è certamente indiana, un carattere che ha contribuito a plasmare l’India nei secoli e presentarla ai miei occhi così com’è ora.

 

Indiranagar è il quartiere dove vivono Christian e Vanina, i due amici appena trasferiti in India per lavoro. È un quartiere di medio-alto livello di Bangalore, uno di quelli dove vanno a vivere i nuovi agiati di questa società in rapida ascesa economica. Eppure Indiranagar assomiglia molto di più ad una qualsiasi città subsahariana che ad una europea, almeno nel suo aspetto esteriore. Strade sconnesse ed affollatissime, marciapiedi inesistenti, immondizie lasciate ai bordi delle strade e nei fossati, polvere depositata su ogni cosa, smog a livelli talmente alti da rendere irrespirabile l’aria.

Però ad Indiranagar noto qualcosa che non avevo mai visto da nessuna altra parte. Se l’aspetto generale è quello di un quartiere che non riesce a stare a passo con il suo sviluppo, risultando caotico, brutto, invivibile, ci sono al suo interno delle evidenti discontinuità. Case dalle fattezze ricercate, immacolatamente bianche, appaiono a stretto contatto con edifici grigi e decadenti, portici sporchi e deserti si alternano a ristoranti il cui ingresso è sorvegliato da camerieri in livrea.

Per quanto sappia che la povertà in India è da tutta altra parte, ad Indiranagar è rappresentata, almeno come abbozzo, quella disparità di evoluzione sociale che caratterizza questa nuova India, un colosso economico dalle mille contraddizioni.

 

La casa di Christian e Vanina è carina. Ampia e luminosa, è ricca di stanze, disposte un po’ alla rinfusa, senza una vera idea di base. Ciò la rende labirintica, da esplorare.

All’una usciamo per strada alla ricerca di un ristorante, più come scusa per farmi vedere come ci si muove per le strade trafficate di Bangalore che per il piacere di mangiare fuori. È il mio primo vero approccio ad Indiranagar. Il ristorante è sufficientemente chic da tranquillizzarmi per le condizioni igieniche, ma non troppo per non essere in voga anche tra gli indiani. Utilizziamo una foglia di banana come piatto e, senza l’uso di stoviglie, portiamo il cibo alla bocca con la mano destra, come costume indiano. Con la bocca in fiamme - i cibi sono tutti davvero piccanti - facciamo poi una breve camminata in un piccolo parco ricco di palme e piccoli scoiattoli. È recintato e ciò lo rende un’isola di pace in un mare tempestoso di confusione umana. Spazi come questo, dediti al piacere di una tranquilla immersione nella natura, sono assai rari ad Indiranagar, come del resto in quasi tutti i quartieri che si stanno accrescendo intorno al nucleo storico della città. Le case vengono costruite le une appresso alle altre, a pochi metri dalla strada, concedendo davvero poco alla necessità di verde che prima o poi i cittadini sentiranno l’esigenza di avere.

Il pomeriggio lo trascorro in casa allo scopo di riprendermi dal lungo viaggio aereo, così, quando mi sveglio, sta già imbrunendo. La calda serata s’impadronisce velocemente della città, come di consuetudine nei paesi tropicali, e al di fuori della casa, in strada, si sente diminuire percettibilmente il cacofonico rumore del traffico.

Per cena puntiamo verso il centro città, provando così l’ebbrezza di un passaggio in tuk-tuk. Un viaggio emozionante. È un continuo insinuarsi in ogni più piccolo spazio lasciato sgombro dagli altri mezzi stradali, un continuo accelerare, frenare, strombazzare. Un gioco di prestigio, noncurante del pericolo, dove macchine, moto e tuk-tuk si sfiorano, s’intersecano, si bloccano l’un l’altro, senza però mai mandarsi a quel fottuto paese. Fino ad ora Christian e Vanina non hanno avuto nessun incidente: sinceramente stento a crederlo. È una autentica roulette russa. Dopo un attimo di panico, non mi rimane altro da fare che ridere di gusto. Evviva il fatalismo.

Giunti incolumi in una delle vie principali del centro, la troviamo vitale e piena d’insegne luminose, come da perfetta istantanea di una metropoli indiana in via di occidentalizzazione. Ai molti negozi alla moda ospitati in edifici dignitosi, si alternano costruzioni buie e cadenti, disabitate. Il ristorante che scegliamo propone cucina tipica del nord e della città di Hyderabad, entrambe piccantissime. Un quantitativo impressionante di camerieri vaga per la sala, ognuno indaffarato a portare a compimento un qualsiasi piccolo servizio. Ci servono sul piatto gli alimenti, ci versano l’acqua nel bicchiere, si fanno carico, addirittura, di prenderci una nuova salvietta di carta quando la vecchia è logora e non più utilizzabile.

Il viaggio di ritorno a casa con un nuovo tuk-tuk risulta essere ancora inebriante, anche grazie al venticello fresco della sera che distende i sensi. Bello appartenere anche solo per un istante (o forse solo perché è un istante) a questa bolgia.

Martedì 8 dicembre – Cubbon Park

Vanina è partita all’alba per Hyderabad, lasciandoci soli. La rivedrò a Natale.

La casa è particolarmente silenziosa il mattino, anche se i primi clacson si fanno udire appena dopo l’alba. Forse perché si ha la certezza che quel silenzio scomparirà con lo scorrere dei minuti, lo si vive con una certa solennità.

Dopo una gustosa colazione, inizio il primo giro solitario di Indiranagar. Non ho nessuna meta, così vago a caso per le vie del quartiere, inizialmente percorrendo quelle intraviste in compagnia il giorno precedente, poi immergendomi sempre più in strade sconosciute. La prima impressione di Indiranagar trova conferma ad ogni passo sui marciapiedi sconnessi, lungo le strade polverose e puzzolenti, tra l’immondizia che giace un po’ ovunque. Ma quest’oggi, forse perché il mio sguardo tranquillo riesce ad essere più profondo, alla mia attenzione risaltano vividi i colori.

Colori che in India possono essere sinonimo di donna. La maggior parte degli uomini ha optato per un vestito occidentale, con l’immancabile pantalone lungo e una camicia a quadri dai colori smunti. Pochi, e solo tra i giovani, indossano delle T-shirt attillate alla moda, mentre qualche anziano veste con dignità un abito più tradizionale, solitamente chiaro. Ma in generale degli uomini non risalta nulla. Sono tutti uguali, con lo stesso taglio di capelli e i baffi ben curati. Sembrano fare di tutto per uniformarsi (e così scomparire). Per le donne, invece, accade l’esatto contrario. Sono gemme colorate che risplendono tra la polvere e lo smog, autentici gioielli che si muovono tra i rifiuti con una solennità ed una grazia seducente. La varietà dei colori con cui si vestono - e la varietà delle fantasie utilizzate - è enorme. Ad ogni incontro mi pare di scoprire una tonalità di cui ignoravo l’esistenza. I colori caldi, come il rosso e il giallo, vanno per la maggiore, ma in strada si intravedono lampi di fucsia, viola, blu, verde e ocra. Questa stupenda varietà dona a Indiranagar una ricchezza che altrimenti sarebbe difficile da percepire. Tutte vestono tradizionalmente, con un sari oppure un kurta, sempre perfettamente pulito, senza traccia di macchia. Molte donne hanno i piedi o le mani tatuate con l’henne, altre la fronte abbellita con una piccola gemma o con una sacro segno rosso. Una cura del proprio aspetto che stride con la totale mancanza d’attenzione all’ambiente urbano in cui vivono.

“Hanno una grande cura di ciò che è privato - che appartiene completamente al loro mondo, come l’interno della casa, la cura della propria persona, ecc. - mentre di ciò che è pubblico non hanno nessun interesse”, mi dirà Chris all’ora di pranzo.

Il pomeriggio lo dedico al centro di Bangalore, puntando deciso al Cubbon Park, un vasto parco che mi appare come un vero miraggio di tranquillità nella pulsante cacofonia indiana. Sufficientemente grande da isolare dal traffico impazzito che lo circonda, è un autentico polmone verde per questa città così bisognosa d’aria respirabile. Al suo interno sono i cinguettii degli uccelli, e non lo strepitare dei clacson, a farla da padrone. Un’autentica panacea contro tutte le nevrosi. Nei suoi novantasei ettari, si trovano aree perfettamente curate, con un prato ben tagliato e delle aiuole fiorite dalle forme più varie, ed aree boschive che sono lasciate evolvere naturalmente senza troppi affanni. Svariate panchine, spesso occupate da giovani coppiette che si guardano teneramente negli occhi (un’immagine dei tempi moderni… il bacio in pubblico è stato depenalizzato solo pochi anni fa), si alternano lungo le strade e i sentieri, che come una fitta ragnatela ricoprono tutta l’area. Il parco è piuttosto frequentato, ma in confronto alla carica umana che vive ai suoi bordi si ha l’avvolgente impressione d’essere soli. Una sensazione che, dopo un piccolo assaggio d’India, non è affatto spiacevole.

Lungo il margine settentrionale del parco ho modo di ammirare l’imponente palazzo Vidhana Soudha, costruito nel 1954 in stile neodravidico, sede del Segretario e dell’Assemblea legislativa del Karnataka, e quello rosso del neoclassico Attara Kacheri, che ospita la Corte Suprema di Giustizia. Entrambi hanno un certo fascino, l’uno antitetico all’altro, e sono i primi due edifici degni di nota che vedo in città.

All’imbrunire dirigo la prua verso Indiranagar con il consueto spericolato tuk-tuk. È l’ora serale di punta, un vero inferno urbano che nessun italiano, nemmeno un napoletano, potrebbe concepire. Non rimane altro da fare che sedersi più comodamente dietro al conducente, dimenticare l’importanza della propria incolumità fisica e godersi lo spettacolo della vita umana che ferve ai lati della strada. Vita che va, da quell’ora, lentamente a scemare, fino a quasi scomparire. Più tardi, tornando a casa a piedi in compagnia di Chris da un ristorante in 100 Feet Road, la strada più alla moda di Indiranagar, tutto mi appare per questo diverso. Vagando lungo un percorso non prestabilito, passiamo nelle vicinanze di molti templi indù, adornati con le piccole statue colorate delle loro divinità. Incrociamo poche persone, qualche mucca intenta a ruminare tra la spazzatura, qualche cane randagio pronto a scappare alla prima minaccia, una via di bellissime case, una di catapecchie con le mura in rovina, un’altra in cui a case ben curate e fantasiosamente colorate s’alternano tristi scheletri di edifici mai completati, vicoli bui e stretti, strade più larghe e illuminate. Bangalore mi appare, avvolta in questa sonnolenta ombra, particolarmente piacevole.

Mercoledì 9 dicembre – Lalbagh Gardens

Non c’è acqua in casa: si è rotta la pompa che la raccoglie da una cisterna interrata nel giardino e la spinge a forza fino all’appartamento. Qualcuno la riparerà nel pomeriggio, forse. La luce va e viene, così Chris si è dotato di un gruppo elettrogeno che entra in funzione quando necessario, in pratica qualche minuto ogni ora.

Venerdì partirò con Chris verso nord, con meta Hampi. Prevedendo una certa difficoltà nel trovare da dormire o posti per viaggiare durante le feste natalizie e nei fine settimana, visto che gli indiani sono tanti e quando si spostano occupano tutto, devo dedicare un po’ del mio tempo a organizzare il viaggio. Nel pomeriggio, però, abbandono la fase organizzativa per dedicarmi a quella contemplativa: meta i Lalbagh Botanic Gardens (costo d’entrata dieci rupie). Li trovo ancora più belli del Cubbon Park, sia perché maggiormente curati, sia per la bellezza e la varietà degli esemplari vegetali ospitati. Sono frequentati da molti turisti, perlopiù indiani, che vagano tra le piante con sguardo appassionato. All’interno dei giardini ci sono varie collezioni vegetali degne di nota, tra le quali un roseto (il nome Lalbagh significa ‘Giardino rosso’, riferendosi al colore di cui i giardini si vestono alla fioritura delle tantissime rose rosse coltivate), una serra di cactus, una collezione di siepi dalle forme bizzarre, una gigantesca serra ottocentesca in ferro e mille aiuole fiorite. Il pezzo forte sono però le visuali prospettiche offerte dagli ampi viali orlati di palme e le rive del lago che occupa la parte meridionale del parco. Alberi con la chioma ad ombrella crescono qua e là ai bordi dell’acqua, inframmezzandosi a palme reali che svettano alte nel cielo con il tronco perfettamente levigato. Una moltitudine di uccelli volteggia sopra il lago, mentre alcuni ardeidi passeggiano calmi dove l’acqua è più bassa. Le scimmie si muovono irrequiete sui rami degli alberi, sgranocchiando noccioline che poi fanno cadere dall’alto sugli ignari visitatori.

Il clima è ideale per assaporare la pace offerta dai giardini botanici, un piacevolissimo tepore che concilia l’animo con questa città caotica che non riesco, per ora, ancora a digerire. All’imbrunire decido di fare ritorno a casa, ma vengo malauguratamente catturato da un conducente di tuk-tuk che vuole a tutti costi portarmi in giro per negozi. “È sulla strada, solo guardare”, dice lui, “poi ti faccio un buon prezzo”. All’inizio cedo alla sua insistenza e mi lasciò condurre in un negozio di prodotti artigianali. Lo trovo davvero molto bello, ricco di gioielli, pietre preziose, tessuti di seta e lana e tante altre cose interessanti. Ma non sono in vena di compere, così dopo cinque minuti esco senza aver comprato nulla e devo affrontare nuovamente la stessa litania: vuole portarmi in un altro negozio. Non mi rimane che impuntarmi: “O mi porti dove ti ho detto o scendo all’istante”. Il tipo smette di insistere e mi scarica al primo conducente libero che incontra, contrattando la mia cessione con qualche bisbiglio che si perde nel crepuscolo ormai ovattato. Il nuovo conducente, per mia fortuna, è silenzioso, preciso e onesto. Mi ritrovo davanti al cancello di casa di Christian dopo quasi un’ora e mezza dalla partenza dai giardini.

Per cena ordiniamo del cibo indiano da asporto e passiamo una piacevole serata in casa a chiacchierare. Continuo ad avere la bocca in fiamme dopo ogni pasto.

Giovedì 10 dicembre – Pronto a salutare la metropoli

È strano vivere in una casa-ufficio. È una casa ad ore, nel senso che il calore familiare ce l’ha solo al di fuori dell’orario di lavoro, scacciato dalla rigorosa disciplina lavorativa imposta da Chris. Però è anche vero che alla sera, quando il calore familiare torna, lo si riassapora con vero piacere.

La giornata è interamente dedicata a cercare di risolvere gli ingarbugliarti problemi organizzativi che un viaggio in India comporta, soprattutto nel periodo natalizio. Ci sono difficoltà soprattutto a viaggiare in treno ed a trovare un buon posto da dormire per l’ultimo dell’anno (non sono preoccupato per le prime due settimane di viaggio, quelle dove sarò, a parte il fine settimana con Chris, solo, ma per le ultime due, quando verrò raggiunto da Caterina, mia moglie, e due suoi zii. Il mio modo di viaggiare in solitaria è estremamente fatalista, accettando di buon grado tutto quello che mi accade, ma mi sento un po’ responsabile della buona riuscita del viaggio per i miei futuri compagni. È per questo che mi prodigo nell’approntare un’organizzazione che se fossi solo certamente non farei). Esco di casa solo per recarmi ad un vicino internet point, camminando leggero lungo le strade sempre affollate di Indiranagar. Il mio corpo inizia ad adattarsi a tutto quello starnazzare che nei giorni scorsi un po’ mi intimoriva. Gli stessi sguardi fissi che molti indiani ti puntano addosso, quasi a volerti fare i raggi x, iniziano a scivolarmi di lato senza turbarmi più di tanto. C’è ancora un piccolo sfasamento tra me e l’India, ma si sta attenuando.

All’internet point, tra le migliaia di mail che spedisco per tutta l’India del sud, sorseggio un Masala chai, una bevanda dal sapore deciso ottenuta bollendo direttamene il tè nel latte, anziché nell’acqua, e aromatizzando il tutto con un misto di spezie (tra queste, il cardamomo, l’anice, il coriandolo, la cannella, i chiodi di garofano e l’anice stellato). La trovo deliziosa.

Con l’imbrunire giunge anche il momento di prepararsi al lungo viaggio notturno verso Hampi, oltre dieci ore per percorrere poco più di quattrocento chilometri. L’India è grande di suo, ma con i mezzi di locomozione che viaggiano a passo d’uomo diventa immensa.

Il parallelismo tra indianità e “caoticità” trova la sua massima espressione nei mastodontici nidi brulicanti d’anime che sono le stazioni ferroviarie. La confusione che impera nel tratto di strada antistante l’entrata, poi dentro la hall ed infine lungo i binari, ha dello stupefacente. Confusione che nella mia testa viene aumentata dalla mancanza d’informazioni fruibili con semplicità da un occidentale. Il binario corretto lo intuiamo attraverso la visione di schermi fittamente appuntati in kannada e inglese, ma la certezza di stare nel posto giusto l’abbiamo solo quando un inserviente appende delle lunghe liste di nomi su una bacheca lungo il marciapiede. I nostri due nomi fanno parte del ristretto gruppo della prima classe (la scelta della prima classe era stata dettata principalmente dalla minore lunghezza della lista d’attesa rispetto alle altre classi per avere un posto sul treno).

Il treno arriva in orario e non mi sorprendo affatto nell’osservare la calca che si forma intorno ai convogli ancora in movimento. Al giungere delle carrozze delle classi più basse, dove i posti non sono prenotati, svariate persone, facendo sfoggio di una certa audacia, salgono sul terreno ancora in corsa, altre si pongono al lato delle porte e seguono la corsa del treno scansando con vigore chiunque si frapponga al loro incedere. Una confusione tipicamente indiana, anarchica, priva di regole.

La prima classe è l’unica a prevedere degli scompartimenti a sé stanti. Le altre classi con aria condizionata e cuccette non sono affatto male, ma la prima classe garantisce in più una certa sicurezza nei confronti di possibili furti. Per quanto riguarda la pulizia invece la differenza non sussiste: in un articolo letto da Chris si diceva che le lenzuola che ti danno in dotazione vengono lavate mediamente una volta al mese. Dopo aver dato un’occhiata al pacchetto offertomi dall’inserviente, estraggo il sacco a pelo dalla zaino e mi sistemo comodo nella cuccetta, suscitando lo sguardo invidioso dell’unica nostra compagna di scompartimento, una signora indiana dai modi silenziosi e cortesi diretta a Hospet, come noi.