Centro Ghélawé in Africa

Dal 07 al 30 dicembre 2006

di Carlo Camarotto

Il Centro
Donne che trasportano legna
Teremi
Un incendio
Il mercato di Diébougou
Villaggio di Lotò
La pista per Bobo
Piccolo fratello
Harmattan

Tappa numero 2, Dal 9 al 14 dicembre 2006

Il Centro
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Sabato 09 dicembre (... segue)

La strada asfaltata esce dal centro cittadino e punta decisa verso sud, in direzione di Gaoua, lasciandosi noncurante alle spalle la confusione di anime che tutto il mondo chiama Diébougou. La percorriamo senza esitazioni, sentendo quasi sulla pelle di essere vicini alla meta. A breve l’apparizione di un bivio ben segnalato ci invita a piegare verso ovest, seguendo il cartello che indica Bobo. Imbocchiamo così la pista che avevamo voluto risparmiare a Carolina. L’asfalto cede subito il passo alla terra rossa, che si alza in grosse nuvole al nostro passaggio, quasi indispettita. Il primo tratto della pista è alberato, cinto da vicino dalle belle chiome di enormi manghi, che si chinano sopra noi a proteggerci lungo il percorso. Il verde delle foglie è ormai solo un ricordo, una lieve impressione svanita nella polverosa patina rossastra che ricopre tutto nei dintorni della strada, noi compresi. Si fa urgente la necessità di ritarare, pena una crisi nervosa fulminante, la definizione di pulizia, abbandonando in fretta la concezione occidentale del termine per soppesare il tutto sulla base del nuovo contesto africano che ci accoglie. Siamo tutti lordi della testa ai piedi ed è poco quello che possiamo fare per migliorare la situazione. Il colore roseo delle mani è virato inesorabilmente verso il rosso, un colore che riappare magicamente nemmeno dieci minuti dopo che me le sono lavate. Riregistrarsi, questa è la necessità. Non prestare più attenzione allo sporco che mi ricopre mi lascia la mente libera di gustare appieno l’uscita dalla galleria di alberi, l’attimo in cui passiamo dal crepuscolo ombroso delle chiome dei manghi alla viva luminosità dello spazio aperto che circonda la città, un tuffo nella luce che apre nuovamente lo vista sulla brousse burkinabè, sulle capanne di terra sparse tra la vegetazione, sulle colline che si confondono lontane all’orizzonte, sugli alberi che crescono solitari, uniche isole verdi in un mondo votato al rosso e al marrone.

La pista è piuttosto frequentata, perlopiù pedoni e biciclette che si muovono instancabili, ma anche qualche motorino che rumoreggia chiassoso tra la polvere. Siamo l’unico mezzo a quattro ruote e non possiamo non attrarre l’attenzione.

Non passano pochi chilometri che le capanne di terra cominciano a farsi più frequenti ai lati della strada, come le persone che si scansano dalla pista per cederci il passo: siamo a Loto. Ad un tratto Dario svolta bruscamente verso destra, imboccando un sentiero seminascosto tra la vegetazione. Il fondo è sconnesso e Carolina ha il suo da fare per mantenere le ruote ancorate al terreno. Intorno a noi, illuminati da una luce che sta velocemente languendo, decine di bambini escono dalle capanne e corrono veloci verso il sentiero, cercando di intercettarci. La mano alzata per salutarci, due occhi enormi puntati verso l’alto, speranzosi di un nostro gesto di risposta, strillano tutti in coro “Dariooooooo”, un grido a squarciagola, come fosse l’ultima cosa che le loro piccole bocche volessero urlare al mondo. Un sorriso mi sale naturale dal cuore e si fa più grande quando sento Dario che di rimando borbotta “Calma bambini, prima o poi con tutti ‘sti urli rischiate di schiattare”.

Proseguendo il sentiero si fa sempre più sconnesso fino a che, dopo l’ennesima curva, non si staglia davanti a noi la pompa che con tanti sforzi, soprattutto economici, abbiamo fatto installare ad aprile, un insieme modesto di cemento e tubi di acciaio, una piramide grigia su cui è stata fissata una grossa ruota verde. Siamo arrivati.

Su un terreno isolato, racchiuso tra colline steppose immerse nella brousse africana, sorge il Centro. L’area, per lo più pianeggiante, inizia alla base di una compatta formazione rocciosa chiamata “la collina”, per poi protendersi indisturbata verso ovest, dove solo lo sguardo è chiuso in lontananza da una serie di colli più alti parzialmente alberati. Le uniche due costruzioni del Centro, la capanna circolare dal tetto di paglia costruita ad aprile e la più grande casa dal tetto piatto in terra non ancora ultimata, sorgono proprio a ridosso della collina, su un terreno ancora in leggero declivio. Tutt’intorno, per circa sei ettari, la vegetazione è stata tagliata, mettendo in evidenza i confini reali del Centro. La terra è disseminata di ceppaie solo parzialmente sradicate, massi rossi e zolle di terra arsa di colore bruno che si sgretolano in polvere tra le dita. Oltre la seconda casa, a cui manca veramente poco per essere terminata, sono iniziati i lavori per la costruzione di un bagno a secco e di una terza casa, dove è prevista la costruzione anche di un piano interrato. Per ora al suo posto c’è un buco enorme, scavato interamente a mano (solo con piccone e pala) nei giorni scorsi da un gruppo d’operai locali; la terra è stata ammucchiata tutt’intorno a formare un sorta di recinto alto quasi due metri, una buona sicurezza per non finire distrattamente di sotto. Tutta la zona è quindi un cantiere aperto con zolle, mattoni, attrezzi da lavoro e quant’altro sparsi un po’ alla rinfusa qua e là.

Appena scesi dalla macchina, ci vengono incontro tre giovani burkinabè, Gabriel, Issa e Sie, di cui avrò modo di parlare, anche approfonditamente, nei prossimi giorni, mentre alle spalle ci rincorrono quasi una ventina di bambini, un po’ di tutte le età. Siamo sicuramente uno strano spettacolo per i loro occhi.

Il sole sta quasi scomparendo dietro i colli ad ovest quando iniziamo a scaricare tutti i bagagli, ma in realtà c’è sempre qualcuno pronto a farlo per te, braccia che si prodigano per trasportare anche il peso più insignificante pur di esserti d’aiuto. Tutto finisce nella capanna circolare, l’unica per ora agibile. Al suo interno Dario, che ci vive ormai da un mese e mezzo, ha posto un tavolino di legno con tutto il necessario per cucinare e sopra questo una mensola con vari alimenti, dall’altro lato ha ricavato una nicchia per i suoi effetti personali, coperta da un necessario pezzo di stoffa per proteggerli dalla polvere. Il pavimento di terra battuta è coperto da tre nattes coloratissime, delle stuoie fatte con dei tubicini di plastica intrecciati, che danno un tocco di vivacità all’ambiente. Il bel tetto di paglia e legno completa un’opera davvero confortevole, anche se essenziale.

Non ho molto tempo per guardarmi intorno, oltre alle capanne, perché in breve sopraggiunge l’oscurità. Cerchiamo di contrastarla con l’uso di tre torce e una lampada ad olio dalla luce fioca e tremolante. La capanna si anima d’ombre inquietanti che danzano irrequiete ad ogni capriccio della fiamma, mentre lavoriamo per mettere un po’ d’ordine tra i bagagli gettati alla rinfusa contro la parete. Abbiamo tutti la necessità di scrollarci la polvere di dosso, quindi uno alla volta riempiamo un secchio di plastica e, rintanati nella seconda casa per ricercare un minimo di privacy, ci laviamo nella penombra prendendoci a secchiate.

Dall’Italia ci siamo portati dietro qualcosa da mangiare, dello scatolame di vario genere e qualche salame sottovuoto. Ma in realtà la dispensa di Dario è già sufficiente per non morire di fame nei prossimi due giorni. Gabriel è ritornato a Diébougou non appena è calato il buio, quindi per cena rimaniamo in sette, gli stessi che devono dormire al Centro. Con un po’ d’intrecci, i dodici metri quadri della capanna sono sufficienti ad ospitarci tutti.

Della cena, del dormire, dell’universo di bambini nascosto a spiarci nel buio, delle stelle luccicanti nel cielo e del silenzio assoluto della brousse ci sarà il tempo di parlarne in futuro.

Domenica 10 dicembre

Il clima sta diventando troppo arido anche per le zanzare: mi sarei aspettato un contingente ben agguerrito, invece ce ne sono davvero poche.

Il sole sorge presto la mattina ed è lui a dettare i tempi. Poltrire a letto è un lusso sconosciuto, come rimanere svegli la notte: ci si alza con il sole e si va a dormire poco dopo il suo saluto finale. Ancora distesi sul materasso alle prime luci dell’alba ci siamo solo noi bianchi, che da queste parti veniamo chiamati tubabu (uomo bianco in lingua dioula; loro si chiamano farafi). Sie, Sami e Issa sono già attivi, pronti a preparare il primo pasto della giornata, la colazione a base di pane e tè.

Il sole fa capolino oltre la collina proprio quando esco dalla capanna, ancora una sfera pallida che intiepidisce invece di scaldare. L’aria non è caldissima, ma nemmeno fredda come mi vogliono far intendere gli amici burkinabè. Per loro questo è l’inverno, il tempo delle notti fredde che li costringe a rifugiarsi nelle capanne per ricercare almeno un briciolo di calore. I tre ragazzi appaiono visibilmente infreddoliti, con indosso tutto quello che hanno per proteggersi dalla temperatura che considerano sicuramente polare. Io, al contrario, vesto solo una maglietta a maniche corte e mi godo il calore dell’Africa cercando di allontanare il ricordo del vero freddo padano che ho abbandonato da troppo pochi giorni.

Come costume africano, ma più perché Dario non ha ancora avuto modo di ritirare un tavolo commissionato ad un falegname di Diébougou, facciamo colazione a terra, seduti a gambe incrociate intorno ad una tovaglia rossa stesa sopra le nattes. Dal villaggio non è giunto ancora nessun bambino e possiamo goderci quasi in religioso silenzio la calma naturale del Centro, un salto nel vuoto per un’anima urbana come la mia.

Sarà perché è domenica, o forse perché siamo appena arrivati, ma non iniziamo immediatamente a lavorare: dedichiamo la giornata chi a prendere visione della situazione, chi a raccogliere le idee, quasi uno sforzo meditativo prima della vera partenza. Peppino è indaffarato a controllare i lavori sulla nuova casa e sui primordi della toilette, Simone a ritrovare il suo animo africano, io a capire in che mondo ho deciso di catapultarmi.

Ci sono comunque alcune impellenze da risolvere, per prima cosa creare uno spazio per fare la doccia. Dell’opera si occupano con solerzia Sie e Issa. Dopo aver piantato a terra dei pali di ferro a creare uno scheletro circolare, lo ricoprono con un sottile strato di canne, a formare così una struttura dalla forma di un tronco di cono: all’interno c’è lo spazio sufficiente per una pedana di mattoni di pietra grezza, un po’ sconnessa ma efficace, e per appoggiare il secchio pieno d’acqua.

All’esterno della capanna, appoggiate alle mura di terra, ci sono due sedie fatte con rametti scortecciati legati tra loro da strisce di cuoio. Sono gli unici oggetti di una certa comodità dove ci si può sedere, per questo sono prese d’assalto un po’ da tutti, sia da noi che dagli svariati bambini che da metà mattinata iniziano a fluire verso il Centro. Ora con la luce posso osservarli meglio. La maggior parte ha un’età compresa tra i sette-otto anni e gli undici-dodici; qualcuno è più piccino ed altri sono già adolescenti. Tra questi ultimi c’è Kevin, detto “lo sdentato”, e Teremi, una quattordicenne birifor dai modi timidi e dallo sguardo sfuggente. È lei ad aver aiutato Dario nelle faccende domestiche nel suo ultimo mese solitario in Africa, facendosi totale carico del lavaggio del vestiario.

Il gruppo di bambini è un mare che ti circonda, fluttuandoti tra le gambe: mi sento uno scoglio bianco che spunta da un’acqua nera in continuo e capriccioso movimento. Ti guardano, ti scrutano, poche volte ti sorridono; spesso il loro continuo chiacchierio è interrotto da una serie di risate sguaiate, un eccesso di risa che scuote nelle fondamenta la naturale calma della brousse. I bambini più piccoli rimangono sempre nei pressi dei fratelli più grandi, spesso tenendoli per mano, alle volte avvinghiati alle loro spalle, legati a loro da un’invisibile cordicella utile per non perdersi in tutta questa novità. I più grandi tendono a stare in disparte, evitando di incrociarti più del necessario, ma soprattutto evitando di confondersi tra i più piccoli.

Il calore che velocemente si riappropria dell’aria, la luce che si fa quasi accecante ed appiattisce ogni colore, la confusione di attrezzi sparsi un po’ ovunque, le grida e le risate dei tanti bambini che popolano frenetici le poche aree abitabili nei pressi delle capanne, sono tutti fattori ai quali non sono abituato, novità logoranti che intaccano prima l’animo, poi il fisico. Sono conscio che devo prendere il tutto a piccole dosi, trovando uno spazio fisico e mentale dove potermi rilassare, per lasciare tutto al di fuori. Lo trovo nella capanna circolare, appena dopo mangiato, steso sulle nattes con il capo appoggiato ad un cuscino ed un paio di auricolari alle orecchie. Mentre la musica mi pervade, lo sguardo vaga oltre il riquadro della porta, un rettangolo di luce in mezzo alla fresca ombra del tetto di paglia, assolutamente un tutt’uno indistinto. Scopro così l’analogia tra quella luce offuscante e la mia avventura africana. Quando il cambio di luminosità è repentino, bisogna attendere che l’occhio si abitui alle nuove condizioni per riuscire a vedere nuovamente; qui è lo stesso: per ritrovare la serenità e rendere oggettiva la capacità di giudizio devo attendere che il mio corpo ed il mio animo si regolino sulla lunghezza d’onda di questo nuovo mondo, così diverso dal mio da lasciarmi spesso con lo sguardo perso, la mente incapace di assorbire, sola pronta a richiudersi in se stessa. Devo concedermi del tempo.

Rimango assente fino a che i raggi del sole non si fanno più leggeri, un cambiamento che avviene solo quando la grossa palla infuocata inizia a cadere verso il tramonto, una movimento rapido che sembra quasi invocato dalle colline che si stagliano ad ovest. Prima di questo, il sole è sembrato galleggiare sopra le nostre teste per un tempo interminabile, come se si fosse fermato lì in alto ad aspettare di cuocere per bene tutto quanto lasciato incustodito fuori delle capanne.

Quando l’aria all’esterno si fa più respirabile, giunge a trovarci, a bordo di una scoppiettante moto nera, Jean Martin, il capo cantiere che sta portando avanti i lavori della seconda casa. È un tipo alto, dal fisico asciutto e proporzionato, un pizzetto appena accennato a sporcare il mento, modi all’apparenza cordiali, ma il cui effetto è vanificato da uno sguardo spesso sardonico, a volte malizioso. Per un po’ lo vediamo vagare in compagnia di Peppino dentro e fuori la casa, un’anima nera ed una bianca, alte più o meno uguali, intente a spiegarsi in una lingua che non è propria di nessuno dei due. Peppino è contento solo in parte del lavoro svolto: il crepissage degli interni, fatto con un amalgama eccessivamente grasso (troppo argilloso) e non steso sufficientemente sottile, si sta screpolando, cadendo a pezzi ad una minima pressione. Ovviamente le rifiniture non sono state nemmeno accennate, ma di questo Peppino non sembra quasi preoccuparsene, forse consapevole di non poter pretendere tanto.

Al calar della sera arriva per tutti il momento di provare il nuovo “box doccia”, sotto gli sguardi incuriositi dei molti bambini che ancora animano la terra arida che circonda le capanne. La sera precedente l’acqua per lavarsi era stata scaldata con il gas, un consumo assolutamente inutile. Peppino, un po’ lo sforna idee del gruppo, propone di acquistare nei prossimi giorni un bidone, dipingerlo di nero e lasciarlo pieno d’acqua al sole per l’intera giornata. Per oggi accettiamo un po’ tutti di fare la doccia allungando solo lievemente l’acqua come sgorga dal pozzo con quella calda, in modo da risultare al massimo tiepida.

Mentre mi lavo, la notte cala rapida, distendendo velocemente sulla mia testa un favoloso manto stellato. Racchiuso ancora tra le canne, accolgo quell’eterno luccichio come un dono.

Lunedì 11 dicembre

Nei dodici metri quadri della capanna distendiamo per la notte due materassi in gomma piuma, praticamente incastrandoli tra i bagagli accatastati addosso al muro e gli attrezzi della cucina. Sui materassi dormiamo noi tubabu, mentre i tre farafi si accoccolano sulle nattes nei pochi spazi che rimangono ancora calpestabili. Dopo che ci siamo sistemati diventa impossibile muoversi senza pestare qualcuno.

Al risveglio i due materassi vengono velocemente addossati alla parete, formando così un morbido schienale su cui appoggiarsi durante il giorno per recuperare un po’ le forze. Siè ha la passione di ripiegare i nostri sacchi a pelo, che si ritrovano impacchettati non appena usciamo dalla capanna per stiracchiare i muscoli ai primi raggi del sole. Al suo primo tentativo, il giorno precedente, non era andato benissimo, ma già da oggi, dopo una breve e frettolosa spiegazione, mi dimostra di essere in grado di ripiegare perfettamente il mio dentro la minuscola custodia.

Oggi è la festa dell’indipendenza burkinabè. L’11 dicembre 1958 è la data in cui l’allora Alto Volta ottenne un autogoverno, mentre la vera dipendenza dalla Francia fu riconosciuta nell’agosto del 1960. Ma la sensazione che questo sia un giorno come tutti gli altri non è solo una vaga impressione, è praticamente scritto su tutte i volti che incroci per strada. Dalle parti di Lotò il sole sorge, per poi tramontare, tutti i giorni, e tutti i giorni bisogna mangiare. Questo è più che sufficiente per non differenziare un giorno dall’altro. La sera prima Dario aveva chiesto a Jean Martin se fosse passato di lì a lavorare. La risposta del capo cantiere era stata emblematica, pronunciata con il solito sorriso lievemente inclinato incollato al viso: “solo chi ha i soldi può permettersi di non lavorare”. E qui i soldi sono veramente in pochi ad averli.

Se io non ho ancora ben chiaro in mente cosa fare, così non è per Peppino, che ha tutte le intenzioni di far costruire ai ragazzi una compostiera in legno, un piccolo recinto dove gettare tutto il materiale organico che produciamo. Il gruppo che si crea alle sue dipendenze è composto da Sami, Issa e Siè, più un loro amico, di nome Olè, materializzatosi all’improvviso tra le capanne. Tutti lavorano egregiamente, con una partecipazione collettiva ricca di entusiasmo: al primo vero giorno di lavoro le energie sono ancora al massimo. Per quanto mi riguarda, l’aria infuocata che si impadronisce della brousse verso metà mattino mi lascia letteralmente intorpidito, sia nel fisico che nei sensi. I bambini, come anche i nostri compagni africani, non paiono subire invece nessun tipo di tracollo, ma delle cosa non posso ovviamente meravigliarmi. Ciò che mi stupisce è vedere che nemmeno lo spirito di Peppino sembra essere intaccato. Con una determinazione che traspare vivida dai lineamenti scavati del volto, il bioarchitetto continua a muoversi imperterrito tra il materiale sparso che circonda la capanne, dando continuamente ordini e lavorando manualmente quando necessario. Tutto il suo incedere lo definisce come il capo del gruppo, colui che si fa carico della responsabilità che questo progetto porta insita con se.

Dario se ne sta tranquillo al riparo della capanna, lo sguardo nascosto dalle folte sopracciglia, due fessure al posto degli occhi. È chiaro che concede con vero piacere questo peso all’amico, un peso che per troppo tempo è gravato sulle sue spalle, le uniche che potevano riceverlo negli ultimi tempi. Il suo sforzo è stato fino ad ora immenso: grazie al nostro arrivo può finalmente ritrovare quegli attimi di pace necessari a riposare la mente, il corpo e l’animo.

Simone è invece più o meno nella mia stessa situazione, per certi versi l’opposto di Dario. È alla ricerca di un ruolo. Per ora la sua è una ricerca interiore, un’attenta attesa per provare a riconoscere il miglior modo per rendersi utile. Se da parte mia so che tutto ciò che avrà a che fare con gli alberi è affar mio, Simone non ha nemmeno questo minimo appiglio al quale aggrapparsi: deve reinventarsi completamente un ruolo al servizio del Centro.

Così, tra un po’ di lavoro, le opportune pause e il solito pranzo abbondante, arriviamo a sera, quando il sole corre giù in picchiata verso ovest, la temperatura cala e l’aria si fa piacevolmente fresca. Dopo la doccia è un vero idillio sedersi su una delle sdraio di legno ed ammirare gli ultimi sussurri del sole prima che si nasconda dietro le colline. Un momento bello, ma effimero: rapidamente il cielo si tinge di nero e le stelle iniziano a brillare sfavillanti sull’intera volta, radiose perfino all’orizzonte. Normalmente nessuna soffusa luminescenza, segno indelebile della nostra epoca, disturba la visione, ma oggi c’è un piccolo bagliore alla nostra destra, oltre le prime colline, dalla parte opposta di Lotò e Diébougou. In lontananza vediamo avanzare un incendio che, frettoloso, scende lungo il pendio, tingendo di riverberi arancioni la scura notte burkinabé. Io e Peppino rimaniamo seduti a guardarlo ammirati, quasi stregati, cercando di imprimere nelle retine e nelle fotocamere il suo fascino ancestrale. Riusciamo ad immortalare scenari di grande intensità: archi luminescenti su quali si stagliano contorte sagome scure; squarci arancioni che dilaniano le colline, mentre gli alberi appaiono come alteri spettatori, ignari del loro destino, o forse solo a lui indifferenti.

Dario ci racconta che giorni prima un incendio era arrivato fino alla sommità della collina che protegge le spalle del Centro. Ora lassù il paesaggio è di quelli apocalittici, con svariate zone dove solo qualche ramo carbonizzato è rimasto a testimoniare la presenza della brousse. Non sa spiegarsi il motivo di questi incendi, anche se è quasi certo che la maggioranza di essi sia di natura dolosa.

Vado a dormire con negli occhi il fascino eterno del fuoco e nell’animo un forte dispiacere per aver visto tanta natura saccheggiata.

Martedì 12 dicembre

Da ieri sera il Centro Ghélawé ha i suoi primi dipendenti. Il precedente tentativo di lavorare con i ragazzi del villaggio chiedendo un’opera volontaria è stato un deciso fallimento: pochi, per non dire nessuno, si presentavano al lavoro, ed anche questo misero apporto era assolutamente irregolare. Per non dover bloccare i lavori, soprattutto nei periodi in cui nessun volontario italiano è presente, abbiamo deciso di “assumere”, stipendiando regolarmente per tutto l’anno, i ragazzi che in questi ultimi mesi sono stati più vicini a Dario: Gabriel, Issa, Sami, Sié e Teremi, unica ragazza del gruppo.

Il passo non è di quelli da poco. C’è da giocarsi tutta l’idea di cooperazione sociale sulla quale si è appoggiata l’idea del Centro, ma ancora di più ci sono molteplici conseguenze a questo cambio di rotta che non riusciamo nemmeno a immaginare. È come aver voluto prendere di corsa un viottolo buio, senza sapere dove condurrà, solo con la speranza che vada nella direzione giusta. I problemi non sono solo quelli di natura economica, che in un modo o nell’altro risolveremo, ma principalmente quelli di carattere antropologico. Quali sono le conseguenze della sola nostra presenza qui in Africa? Quali sono le conseguenze dell’intrusione nella vita di questi giovani di un sistema di vita basato sugli agi e sul denaro sempre a portata di mano? Come cambieranno Samì e gli altri quando si ritroveranno in mano una paga costante, sicura, vero miraggio saheliano? Saremo in grado di spiegare loro quanto deve essere profondo il senso di responsabilità insito nella ricezione di un salario? Saremo in grado di svelare ai loro occhi la totale correlazione tra il comportamento presente e le possibilità future? Quali sono... Saremo in grado... Cosa succederà... Mille domande che in una sola notte si vanno ad aggiungere ad altre mille impacchettate alla bene in meglio in un piccolo recesso della mente, tutte irrimediabilmente inevase.

Mi alzo comunque con la consapevolezza che una tale scelta era necessaria, pensiero comune che traspare chiaramente anche dalla gioiosa leggerezza di Simone, tra i più convinti nell’intraprendere questa nuova fase, e dal più compassato sollievo di Dario. La reazione dei ragazzi è stata invece di completo sbalordimento, come se un extraterrestre fosse piombato in mezzo a loro ed avesse iniziato a salutarli saltellando su un piede. Su tutti e quattro (Gabriel non era ancora tornato dalla capitale) si era stampato in volto, già dalle prime parole di Dario, un sorriso ampio quanto un forno, un sorriso che si apriva tra i due labbroni, mostrando la candida dentatura, e si estendeva fino agli occhi sbarrati: uno sfavillio felice, un entusiasmo unico.

La giornata pare identica a quella precedente, con il cielo solo lievemente più velato. Di nuvole in cielo nemmeno l’ombra, solo un indistinto velo celeste che va schiarendosi con il proseguire del giorno, una monolitica massa che grava sulle nostre spalle attraverso i raggi del sole che scottano la pelle già dalle nove di mattina. La brousse mi accoglie nuovamente con i suoi verdi smarriti nella polvere e nella terra arsa; anch’essi si uniformeranno verso mezzogiorno, diventando un tutt’uno indistinto, una fotografia sbiancata dalle ingiurie di una luce eccessivamente potente.

Oggi è il mio turno di lavorare. Non abbiamo ancora nessun alberello sottomano, ma dobbiamo scavare le buche per raccogliere questi nuovi germogli di vita. Pianificando i lavori con Peppino, si è deciso di creare un giardino alberato tra le prime abitazioni e la pompa, una sorta di fresco frutteto, ospite generoso di cibo e frescura. Solo parlandone già sogno il tenue fruscio delle foglie dei manghi, piacevole sottofondo ad un rigenerante riposo pomeridiano.

Porto con me Samì e Siè. Io scelgo dove scavare, loro fanno le buche. Sono profonde sui sessanta centimetri e larghe mezzo metro; le distanziamo di circa dieci metri, per permettere alle radici ed alle chiome di avere sufficiente spazio per svilupparsi. A lato del buco accumulo delle zolle di terra superficiale, l’unica con un colore che vira al bruno in cui pare ci sia un po’ di sostanza organica. La mescolo con un po’ di letame raccolto precedentemente da Samì al villaggio e con questo riempio la base.

I due burkinabè sono delle vere scavatrici umane. Entrambi si gettano con tutto il corpo contro il suolo, concentrando tutta la forza in loro possesso su ogni colpo di piccone che infliggono alla dura crosta di terra. Le picconate si susseguono rapide, senza attimi di tregua, una sorta di battaglia che si vince o si perde solo sullo sprint, senza possibilità di replica in un prossimo futuro. Dopo il piccone, la dabba, una sorta di pala montata al contrario con l’attrezzo ortogonale al bastone e non parallelo, per estrarre dalla buca la materia incoerente sgretolata a forza di muscoli. Piccone, dabba, piccone, dabba, piccone, mani nude (perchè di dabba ce n’è una sola e sono in due a lavorare), di nuovo piccone, di nuovo dabba. Quando un buco viene iniziato, non si fa altro che scavare freneticamente fino a che non è finito, fino a che la terra sassosa non si è accumulata in grossi cumuli a lato del proprio corpo affaticato e il tubabu di turno (cioè io) non da l’ok sull’opera effettuata. È come se per percorrere un giro di pista decidessero di scattare per quattro volte per correre i cento metri. Perfino il riposo è vissuto con la stessa “ingordigia”: non ci si rinfresca con un po’ d’acqua, se ne ingolla la maggior quantità possibile, non si siede composti all’ombra, ci si lascia cadere a terra come un sacco svuotato. Non ci sono mezze misure quaggiù, tutto è estremo, perfino il lavoro ed il riposo.

Sié dimostra di essere un lavoratore spettacolare, preciso e potente. Le sue buche sono tracciate con il compasso e arriverebbe fino all’inferno se non lo fermassi ordinandogli di scavare un’altra buca. Samì fa quello che può, ma, seppur capace, non può neanche lontanamente avvicinarsi alla velocità e alla precisione dell’amico.

Non sono l’unico a riconoscere le capacità lavorative del giovane burkinabè. Nel pomeriggio Gabriel, appena tornato dalla capitale, per continuare i lavori sulla toilette chiede per prima cosa che gli venga affiancato Sié. Così mi ritrovo con al suo posto Issà e l’idea di finire le buche in meno di due giorni svanisce leggera nell’aria come era giunta.

Il tramonto ci sorprende che siamo ancora sul campo, la pelle ricoperta da uno spesso strato di terra, gli indumenti sudici bagnati dal sudore. Il momento in cui la temperatura si fa piacevole è per me la campana che suona la fine dei lavori. Il mondo si riappropria dei colori, il sole si tinge d’arancio e i bambini sembrano meno confusionari. Spogliarsi di tutto, avvolgersi nell’asciugamano, raccogliere il secchio e riempirlo con l’acqua del pozzo, nascondersi agli occhi di tutti all’interno del recinto di canne, farsi scivolare addosso l’acqua fresca ascoltando il vociare allegro dei ragazzi a qualche decina di metri. Un insieme di gesti, quasi un rituale, che avvicina il corpo e la mente ad una pace suprema, ad una sensazione perdurante di serenità e gaiezza. Il crepuscolo mi avvolge e mi culla, un piacere nel quale mi adagio con tutto me stesso. Gli attimi che scorrono sono reali, però sono piccoli frammenti di vita quotidiana trasformati in sogno, un sogno dal quale non vorrei mai uscire.

In un attimo è però già buio e il contorno delle colline muta in un nero muro nel cielo notturno, stagliato lontano a coprire il luccichio delle stelle all’orizzonte.

È il turno di Gabriel di sentire l’offerta che abbiamo fatto la sera precedente agli altri ragazzi. Diverso è il suo approccio alla questione. Gabriel ha quasi trentasette anni, un lavoro già avviato come muratore, una famiglia che vive a nord oltre Ouagadogou. Quella che gli offriamo è un’occasione, ma siamo consci che è quello che deve mettersi maggiormente in gioco. Anche se non ha frequentato la scuola, Gabriel ha la mente sveglia e vivace. Non sa scrivere in francese, ma lo parla correttamente, quasi sempre accompagnandolo con un’ampia e articolata gestualità delle mani.

Prima di scegliere, chiede rassicurazioni riguardo eventuali infortuni o periodi di malattia, niente di scritto, solo la nostra parola che non lo abbandoneremo in futuro. Rassicurato, anche sul suo volto appare un sorriso enorme e contagioso. Anche lui è del gruppo.

Mercoledì 13 dicembre

Il cielo è meno limpido degli altri giorni. Le colline appaiono ricoperto da un velo etereo di fine nebbia, che aleggia immota tra i pochi alberi che si elevano imploranti verso un cielo sempre avaro d’acqua. L’aria si è fatta più fresca durante la notte e un lieve venticello spira da nord, insinuandosi subdolo oltre i vestiti fino alla pelle parzialmente infreddolita. Ciò nondimeno il cielo sembra essere più pesante, forse per il carico di polvere che il vento porta in dono dalle lande desolate del Sahara. L’Harmattan, il vento che soffia nel Sahel da nordest, spingendo masse d’aria secca dall’immenso deserto a nord.

Sarà la stanchezza ereditata dal primo giorno di lavoro, saranno le prime avvisaglie di un mal di gola, sarà la pesantezza del cielo, ma il disordine che impera all’esterno delle capanne mi infastidisce. Vari attrezzi da lavoro sono abbandonati con noncuranza per terra, ma più di questi la mia attenzione si sofferma sulle molte cartacce e i vari resti di materiale organico che ovunque tappezzano il suolo. I bambini lasciano cadere a terra tutto quello che non è loro di nessuna utilità, assolutamente indifferenti a qualsiasi idea ambientalista, igienista o quant’altro. Ai nostri occhi sarebbero considerati selvaggi privi di educazione. In realtà non fanno altro che comportarsi secondo gli usi ed i costumi di un popolo che vive un differente rapporto con l’ambiente, vivendo una differente epoca. Mi sovviene che pochi giorni prima di partire avevo scorto in Italia una lavatrice abbandonata in un fossato a lato della strada: che rabbia, che senso di frustrazione. Quella che però noi chiamiamo inciviltà, qui è la quotidianità. Non posso non ricordare che i miei nonni, andando indietro nel tempo solo di pochi decenni, si comportavano allo stesso modo. La cura dell’ambiente, inteso sia come ecosistema naturale che come luogo abitabile, fa parte del bagaglio culturale che dobbiamo cercare di trasmetter loro, mettendolo in essere con una paziente tenacia. Siamo qui per insegnare, ma anche per apprendere. Dobbiamo dotarci sia della sicura consapevolezza dei maestri, sia dell’umile relativismo degli allievi. Ed è proprio al relativismo che dobbiamo attingere per entrare in sintonia con quando ci circonda, un mondo così diverso da quello che abbiamo finora conosciuto, così diverso da noi stessi. Dobbiamo iniziare a ballare con il loro tempo, a muoverci in sincronia con le loro cadenze, solo così possiamo pensare di trasmettere le nostre conoscenze, gli aspetti del quotidiano occidentale che siamo certi possano esser utili per un loro effettivo miglioramento.

Il lavoro su me stesso continua mentre percorro un tratto di sentiero per inoltrarmi nella brousse alla ricerca di un luogo appartato da trasformare momentaneamente in toilette, un asciugamano in una mano ed una caraffa di plastica blu nell’altra (quella verde serve per lavarsi le mani ed i denti). Perfino andare in bagno ha le sue difficoltà, un gesto normalmente semplice e riposante si trasforma in un esercizio ginnico per allenare i quadricipiti. Non si lascia troppo spazio ai comfort, più per abitudine a non averli che per una avversione alle comodità di stampo occidentale. Non è proprio un bel risveglio il mio, perché ne sento la mancanza.

Dopo colazione mi aspettano le buche e una novità. Per proteggere le piantine dagli animali che vagano per i campi, soprattutto le vacche dei peul che transitano indolenti due volte al giorno sotto i nostri occhi, abbiamo deciso di erigere una barriera di canne lungo tutto il perimetro del “primo giardino”. Commissioniamo il lavoro ad un birifor di Lotò, un uomo dal cranio lucente che pare una sfera di magnetite, un sorriso ampio e due occhi eccessivamente supplichevoli. Scopro in giornata essere il padre di Bayo, uno dei giovani più irrequieti tra quelli che stanziano normalmente al Centro, dotato di una risata sguaiata talmente caratteristica da essere riconoscibile da tutti anche nel buio più assoluto. Ad aiutare il contadino ci sono due ragazzi dell’età di Sié e Sami. Raccolgono le canne secche del miglio in giro per la brousse, trasportandole sul capo in gruppi di venti fino all’area nei pressi della pompa, per poi ammucchiarle in vari cumuli disposti lungo l’intero perimetro, indicato dal sottoscritto e tracciato con il piede nudo da uno dei ragazzi. Dopo anni passati a camminare senza calzature, i loro piedi sono protetti da uno spesso strato di pelle corazzata, meglio di qualsiasi hobbit: possono farci praticamente quello che vogliono. Il contadino intanto scava ogni due metri delle piccole buche dentro le quali conficca due bastoni alti un metro e mezzo. Nello spazio tra i due bastoni inserisce le canne, disponendole orizzontalmente a formare una barriera continua, sufficiente a tener al di fuori qualsiasi animale.

Ci ritroviamo quindi in sei a sudare sotto il sole, con la polvere che aderisce al corpo ed agli indumenti fradici, formando con essi un impasto granuloso. Al momento della pausa per il pranzo, però, solo noi cerchiamo un momento di riposo all’interno della capanna, loro rimangono a lavorare, indifferenti alla calura che sale dalla terra con una morsa implacabile, che strozza prima di tutto il respiro, rendendolo affannoso, poi afferra le membra che appaiono tutt’un tratto stanche e pesanti. Ma loro sono immuni a questo attacco e, nella tremula aria che riveste la terra, continuano ad essere tre vacillanti operose figure.

Al lavoro al Centro c’è anche Jean Martin. L’ho visto superare la curva in prossimità della pompa quando il sole non aveva ancora iniziato a scaldare, ancorato alla rumorosa moto nera, dietro di se una nuvola di terra polverosa che con calma si è lasciata riadagiare al suolo e sulla scarna vegetazione che cresce confusa a lato del sentiero. La seconda casa sembra finita, almeno nella sua struttura grezza. Mancano l’intonacatura esterna, la battitura dei pavimenti e del tetto, più altri piccoli particolari conosciuti solo a Peppino. Il crepissage delle pareti esterne è compito di Jean Martin che, spogliato di tutto e rimasto con addosso solo un paio di mutande azzurre, inizia poco dopo l’arrivo ad impastare la terra con acqua fino ad ottenere un composto fangoso. Con pazienza, usando nello stesso tempo forza e grazia, il fango va spalmato sul muro, allo scopo di farlo aderire il più possibile. Usando con abilità il palmo della mano si cerca poi di lisciarlo, eliminando tutte le rugosità. Se l’impasto è sabbioso lo strato di intonaco può essere lasciato anche piuttosto spesso, se invece è argilloso lo strato deve essere piuttosto sottile, pena vederlo staccare a pezzi appena asciugato.

Visto che Jean Martin è solo, ma soprattutto perché non ha ancora trovato un suo vero ruolo, Simone decide di affiancarlo nell’opera. Anch’egli spogliato della maglietta, uno di fianco all’altro, il confronto tra i due intonacatori risulta quanto mai evidente. Uno scuro, filiforme, muscoloso, guizzante come una pantera, l’altro pallido, grassottello, all’apparenza flaccido come un ippopotamo. Hanno in comune solo le migliaia di gocce di fango rappreso che ricoprono le braccia, il torso ed il viso. Mentre lavorano, i bambini li circondano di parole al vento, un chiacchierio continuo fatto di suoni gutturali il cui significato è oscuro, e risa smodate, simili all’eruzione di un vulcano, come se lo scoppio ilare fosse in procinto da tempo di esplodere e si fosse caricato di pura energia durante tutta questa attesa. Tra i più confusionari, oltre al già nominato Bayo, ci sono Jean Pure, Liabà e Diabò, quattro piccoli cavalieri dell’apocalisse pieni di energia, vitali, sempre pronti a compiere qualche marachella. Arrivano da noi appena il sole inizia a scaldare, per andarsene poco prima del tramonto, quando un piatto di tò, una sorta di polenta di miglio dal sapore inesistente, è pronto ad aspettarli nelle loro capanne. Poi tornano da noi al calar delle tenebre, per godersi l’ultimo spettacolo.

Grazie al gruppo elettrogeno e la lampada comprata a Bobo, possiamo vivere la comodità della casetta anche di sera, un fatto che ci rende unici in questo piccolo angolo di mondo (a Lotò la corrente arriverà, se verranno rispettate le previsione, tra dieci anni). Illuminati all’interno delle mura di terra, rappresentiamo una sorta di programma del Grande Fratello per i piccoli occhi assiepati fuori dalla porta e dalle finestre, nel buio della notte. Spiando i nostri movimenti, si meravigliano delle magie degli uomini bianchi: il computer portatile usato da Peppino per lavorare e da Simone per scrivere, il mio i-pod, gli accendini, il gas per scaldare l’acqua, e tutte quelle cose che a noi sembrano naturali ma che qui non hanno mai visto. Quando dobbiamo uscire dalla capanna bisogna stare attenti a non calpestare i piccoli proprietari di quegli occhi, anche se, in un frastuono fatto di sussurri, si discostano prontamente per farti spazio.

Finita la cena, non appena chiudiamo le porte per cercare, stanchi, un minimo di tranquillità, scompaiono silenziosi, come leggeri fantasmi dissolti nella fresca aria notturna. Riappariranno l’indomani con i primi raggi del sole, c’è da starne certi.

Giovedì 14 dicembre

Ordine, pulizia e rifiuti differenziati. Questi sono i tre concetti fondamentali che sembrano essersi appropriati del Centro stamane. Non ero l’unico a sentirsi infastidito dall’anarchia che andava crescendo intorno a noi.

Dopo aver catechizzato i nostri giovani amici a riguardo, con l’ordine di trasmettere il concetto ai ragazzini che a breve sarebbero giunti a farci compagnia, Peppino decide di costruire una piccola terrazza per rendere piano il terreno a nord della capanna circolare. Uno spazio vivo, pienamente inserito nella quotidianità, è più probabile che si mantenga pulito e ordinato.

I campi che si estendono verso ovest sono pieni di rocce rosse strappate con violenza alla terra, rocce che ora giacciono sulla superficie come punti di sutura delle ferite che le abbiamo inflitto disboscandola. I picconi calati con violenza contro il suolo per costruire il piano interrato della terza casa hanno sgretolato spessi strati di argilla giallo ocra, terreno franoso ora accumulato a pochi passi da noi, oltre il perimetro del grande scavo. Per creare una terrazza dobbiamo erigere un muretto a secco con le pietre e riportare la terra fino a colmare la disparità di pendenza.

Non appena Peppino inizia a trasportare alcune massi nei pressi della capanna, un’orda di ragazzini prova ad imitarlo, per rendersi utili e, nello stesso tempo, per partecipare allo spettacolo messo in scena dai tubabu. Anche i più piccoli si danno da fare, spesso cercando di trasportare massi più grandi di loro, inconsapevoli che un minimo passo falso potrebbe rivelarsi per loro fatale. Simone implora che la smettano, terrorizzato all’idea che il lavoro minorile prenda il sopravvento al Centro. I bambini lo guardano confusi, non capendo nulla delle sue parole e continuando a fare quello che hanno deciso di fare, cioè aiutarci. Sami e Sié caricano invece la terra sulla carriola, lavorando di pala, di dabba e di mani. Anche qui alcuni bambini, volendo partecipare, prendono in mano i pochi strumenti da lavoro non custoditi, indossano i guanti da lavoro, vero identificativo sociale, e si pongono in piedi sul cumulo di terra pronti a lavorare. Simone inizia a gemere, un piagnucolio comunque scherzoso, e si rintana nella capanna con la scusa di dover cucinare: non vedere lenisce il senso di colpa.

La giornata di lavoro scorre comunque tranquilla, senza nessun inconveniente, ed il cibo offerto a pranzo è più che sufficiente per permetterci di riprendere le forze. Certamente non siamo in Italia, dove oltre al cibo per nutrire il corpo abbiamo anche una vasta varietà alimentare per nutrire la mente. Al mercato di Lotò si trovano sempre le stesse cose, pomodoro, cipolle, papaie e poco altro. Tutto il resto è per noi immangiabile, come il tò. Per soddisfare il palato siamo costretti a recarci a Diébogou, dove facciamo incetta di sacchi di riso e pasta. Ci sono un paio di posti in città dove vendono prodotti di stampo occidentale, tra cui perfino la pasta italiana. I costi sono però paragonabili ai nostri e mi rendo conto che solo i bianchi e pochi altri possono permettersi simili prelibatezze. Una scatola di piselli costa come tre chili di riso, più di un giorno di lavoro dei nostri ragazzi.

Loro sono sempre affamati e non lasciano mai nulla sul piatto. Scopro guardandoli il vero significato della concetto “fame atavica”. Noi siamo bianchi e più vecchi di loro, entrambi fattori a cui la loro educazione impone rispetto. Aspettano che siamo noi i primi a servirci, e poi i primi a rimpinguare il piatto. Loro attendono famelici il loro turno. Gli occhi brillano quando vedono il cibo, lo fissano come un gatto intento a fare la posta ad una preda. Ingurgitano il tutto con passione, una voracità che nasce dal non essere poi tanto sicuri che potranno mangiare anche l’indomani. Troppe volte nella loro vita hanno dovuto saltare non solo un singolo pasto, cosa assolutamente normale, ma addirittura l’unico pasto della giornata. Analogamente a quanto riportava Dominique Lapierre parlando dello slum della Città della Gioia, qui le persone si possono dividere in chi mangia un pasto tutti i giorni e chi no. Chi mangia due pasti al giorno è un privilegiato, una rarità assoluta. Figuriamoci noi che di pasti ne facciamo tre, tutti più che abbondanti. Quando rifiuto l’invito a continuare a mangiare, Sié mi guarda stranito, incapace di comprendere cosa possa spingermi a compiere una simile stupidaggine. Sami sorride con un solo angolo della bocca, più un ghigno che un sorriso vero e proprio, e si appropria di tutto ciò che riesce a raggiungere con le mani. Issa e Gabriel, essendo più vecchi, hanno la precedenza sugli altri, ma forse per questo anche il dovere di comportarsi con maggiore dignità. Teremi attende che gli uomini si servano, senza imporre mai la sua presenza, anzi, tentando quasi di dissolverla. Dobbiamo ogni volta invitarla a mangiare, marcando con i gesti e le parole la sua pari dignità a servirsi del cibo.

Non è importante quanta pasta facciamo, che sia un chilo o due, quanto condimento utilizziamo, quanto pane compriamo. Quello che c’è sulla tavola finisce inesorabilmente. L’idea che possa rimanere qualcosa è inconcepibile. Di sicuro il giorno che avremmo saziato uno come Sié, sarà un giorno da ricordare.

Oggi un piatto di pasta c’è anche per Jean Renè e due donne venute ad aiutarci a completare la seconda casa. La battitura del pavimento, fatta con letame, terra, acqua, burro di karitè e una pianta della brousse che produce una specie di colla, per tradizione deve essere fatta dalle donne. O meglio, nessun “vero” uomo si abbasserebbe a farla. Jean Martin aveva mosso rapidamente la testa in segno di diniego quando Dario aveva chiesto lumi su chi dovesse occuparsi della battitura del pavimento: “Questo è un lavoro da donne” aveva detto con impeto, con decisione, infastidito dal fatto che qualcuno potesse pensare che era compito suo. Jean Renè non è sicuramente un uomo come gli altri e si è invece offerto di aiutarci, sia con il suo lavoro, sia chiedendo un favore a due amiche cattoliche frequentanti la stessa chiesa. Le vedi muoversi per le capanne vestite tradizionalmente, una stoffa avvolta intorno alla vita a formare un’ampia gonna lunga oltre metà gamba, una camicetta a maniche corte e un drappo arrotolato sulla testa, il tutto vivacemente colorato, in mano un piccolo strumento di legno con un lato piatto per battere il pavimento, nell’altra un secchio riempito di un miscuglio scuro, maleodorante e colloso. Battono il terreno con forza, continuamente, senza mai fermarsi. Lo fanno nella stessa posizione che ho visto assumere alla ragazza di Bissirì o a Teremi quando lava le stoviglie, piegate fino a terra mantenendo le gambe distese, al massimo leggermente piegate alternando di volta in volta il peso su una gamba o sull’altra. Jean Renè le aiuta a preparare il composto o a procurare la magica pianta collosa. Ogni tanto qualche colpo al suolo lo da pure lui, ma non può mantenere quella strana posizione per più di qualche minuto e quindi preferisce rendersi utile in altri modi. L’assiduità con cui lavorano è impressionante. Lo fanno chiacchierando di continuo, una confabulazione dai toni tranquilli e sommessi, interrotta alle volte da qualche risata più sostenuta. Sembra si divertano a colpire il terreno con quel misto di delicatezza e forza che hanno acquisito in tanti anni di pratica. Se pesa loro lavorare, sicuramente non lo danno a vedere.

Al lavoro fuori dalla casa, ancora intento a spalmare la terra sulle pareti della casa, Jean Martin non condivide a pranzo la nostra pasta ma si ferma solo un attimo per bere l’odierna razione di chapalò, la tradizionale birra di miglio che scorre forse più del sangue nelle vene dei burkinbè. Il chapalò ha un gusto simile al sidro, leggermente aspro. Purtroppo viene bevuto a temperatura ambiente, quindi caldo, perdendo così anche la minima possibilità di incontrare i nostri gusti occidentali. Quando gorgoglia nello stomaco vuoto, lasciato lì cadere da lunghi avidi sorsi, continua a fermentare donando un falso senso di sazietà. A pranzo è la miglior soluzione per i numerosi lavoratori burkinabè che non hanno, come tutti gli altri, molti soldi da spendere per cibarsi regolarmente. Sazia, rinfresca, dona un piacevole ebrietà, peccato che non nutra.