Tappa numero 4, Dal 18 al 21 dicembre 2006
Lunedì 18 dicembre
Nuovamente al lavoro. Dobbiamo concludere le rifiniture interne della seconda casa, in modo da renderla utilizzabile per domani, quando arriveranno altri due catanesi. Doriana è già stata in Burkina Faso ad agosto, mentre Vincenzo è alla sua prima esperienza nel Sahel. Dando per scontato che la capanna non è in grado di ospitare nove persone, dobbiamo rendere vivibile la seconda casa prima del loro arrivo.
In realtà anche la capanna ha bisogno di essere ultimata, visto che ad aprile non c’era stato il tempo di intonacare le pareti interne. Per terminare tutto in giornata dobbiamo impegnarci a fondo, dando vita ad un vero lavoro d’equipe, in cui tutti devono dare il loro contributo. A parte Gabriel, ormai impegnato a tempo pieno con la toilette, tutti si mettono a disposizione di Peppino.
Svuotata velocemente la capanna, inizio il creppisagge in compagnia di Simone e Issa. Utilizzando una mescola poco grassa non siamo obbligati a stenderla in strati sottili, cosa che rende il lavoro più veloce e semplice; purtroppo il maggior quantitativo di sabbia rende la mescola sensibilmente più abrasiva. A farne le spese sono le nostre povere mani, non protette dai guanti che renderebbero il lavoro più sicuro ma anche più grossolano. Ogni tanto qualche piccolo sasso s’impianta a fondo nella carne, una fitta dolorosa che fa salire alla bocca un oceano d’imprecazioni. Per tutelarci, a metà mattinata fondiamo il Primo Sindacato Burkinabè della Mani Lazzariate.
A parte questo non abbiamo comunque molto di cui lamentarci. Il lavoro scorre gaio tra il giusto impegno e delle sane risate, mentre il sole all’esterno porta avanti con calma un lavoro di logorio ai danni degli esseri viventi sprovvisti di riparo. Simone non la smette di inveire scherzosamente contro Issa, autore di un lavoro per nulla certosino, votato alla quantità di movimento del corpo più che alla qualità del lavoro svolto. Io sono, come sempre, lentissimo, ma posso essere soddisfatto dei tratti di muro intonacato. Simone è ormai un esperto e procede veloce e sicuro, noncurante delle gocce di terra che gli imperlano il viso, i capelli, gli occhiali, fino a farlo assomigliare ad un golem.
Peppino, oltre a riempirci in egual misura d’indicazione e d’improperi, cura personalmente la fase di tinteggiatura delle pareti. Polverizzando due tipi di argille, una rossastra ed una gialla, ha ottenuto in precedenza due diverse tonalità di colore, in modo da dare anche un tocco estetico alle due case. Per la tinteggiatura della prima casa decide di usare anche il burro di karitè, in modo da testare la sua capacità di trattenuta del colore. Quello che ne risulta è un liquido marroncino dalla consistenza vellutata e dal profumo dolciastro. A dargli una mano c’è Siè, che spia con attenzione l’architetto per comprendere le esatte movenze da mettere in atto. È commovente la voglia che questo ragazzo impegna nell’apprendimento, una dedizione che traspare nitida dallo sguardo attento ed assorto, dalla concentrazione resa evidente dalle pieghe della fronte. Solo lui riesce a mettere in pratica i dettami di Peppino per eseguire una buona tinteggiatura, fatta di spennellate fluide che necessitano di movimenti elastici del polso. Gli altri è come lo avessero bloccato, un tutt’uno indistinto con l’avambraccio, più adatto a lavori di forza che a quelli di precisione. È evidente che non sono per nulla usi a compiere simili gesti.
Rispetto agli altri Siè riesce a mettere nel lavoro qualcosa in più, una vera attenzione ai minimi particolari, forse una maggiore voglia di emulazione, una genuina voglia d’apprendimento. È stato sufficiente un giorno e qualche rapida indicazione di Dario, per esempio, per imparare a fare un buon caffè (ormai il rito mattutino della moca è suo di diritto, anche se poi di quel liquido nero e fumante non ne beve neppure una goccia, dal gusto decisamente troppo forte ed amaro per il suo palato).
Un paio di serate finora le abbiamo dedicate alla visione di un film. Era un desiderio agognato da Dario che non ne poteva più di starsene da solo in mezzo all’oscura brousse senza l’ombra di uno svago. Simone e Peppino si sono prodigati per esaudire il desiderio del catanese e hanno portato con loro svariati dvd, più di venti film per allietare le ore serali dell’amico. La proiezione di un film su un computer è qualcosa che da queste parti non si è mai vista, un evento ancora più eccezionale di quelli che la nostra vita mette in mostra quotidianamente ai burkinabè che passano per il Centro. I bambini si sono assiepati sulle porte, quasi uno sopra l’altro per vedere lo schermo, silenziosi come non mai, catturati da quelle immagini che mostravano un mondo che non conoscevano, che non avevano neppure immaginato esistesse, di cui probabilmente non comprendevano nulla. Ma dopo un’ora di visione se ne sono andati, non più scossi dalla novità, certamente attratti dal giaciglio notturno che li aspettava al villaggio. La stessa sorte ha colpito Gabriel, Issa e Sami, che a breve si sono addormentati lì dove erano seduti. L’unico a rimanere sveglio è stato Siè, il viso incollato allo schermo, la bocca semiaperta, lo sguardo catturato. Mentre guardavamo “Chiamami Aquila”, con John Belushi, sullo schermo sono apparse le Montagne Rocciose, uno scenario invernale dove la neve ricopriva ogni singolo masso o albero. Ho voltato il capo verso di lui, cercando d’immaginarmi cosa stesse provando in quel momento. Siè era lì, l’unico ad ammirare qualcosa di mai visto, pronto a mettere da parte questa nuova esperienza, pronto a sfruttare con tutte le sue forze questa nuova opportunità.
La stima che ho per questo ragazzo cresce giorno dopo giorno, adornata dal suo sincero sorriso, sempre presente su quel giovane volto scuro. Il soprannome che gli abbiamo affibbiato non ha nulla a che vedere con l’animo gentile che lo caratterizza, ma ha ugualmente preso piede, più come forma scherzosa di rispetto che per altro. Siè è soprannominato “The Killer”.
Ogni tanto, negli ultimi giorni con sempre maggior frequenza, al mattino, in compagnia del ragazzo del pane, arriva qualcuno con l’intenzione di venderci un pollo, una faraona o qualche altro volatile. I primi giorni erano i nostri ragazzi ad andare al mercato per comprare qualche animale da mangiare, in modo da integrare una dieta che, con la fine dei prodotti portati dall’Italia, era diventata povera di proteine. La voce che alcuni tubabu erano interessati ad acquistare animali deve essersi sparsa velocemente nel villaggio, perché a breve sono stati gli stessi a venire da noi, una vendita a domicilio veloce veloce.
Per me la frase “comprare del pollo” significa andare al supermercato e prendere una vaschetta incellofanata di petto di pollo pronto alla cottura. Qui significa comprare un pollo ancora vivo, con lo sguardo vispo ed il corpo ricoperto di penne. Passare da questa fase al mangiare delle succulente cosce di pollo prevede alcuni passaggi che non sono in grado di compiere, primo fra tutti uccidere l’animale. Ma qui al Centro, dove nessun farafi ha scrupoli nel mettere fine all’esistenza di qualsivoglia animale, il compito di trasformare un essere starnazzante a due zampe in un insieme di pezzi di carne pronti alla cottura è immancabilmente assegnato a Siè, il più abile a stroncare una vita per permettere il sano prosieguo di altre ritenute più importanti. Da qui il nome “The Killer”. Quando è l’ora di uccidere l’animale, Siè lo afferra abilmente per le zampe, si allontana dalle costruzione nascondendosi alla vista e ritorna poco dopo con la pentola piena di pezzetti di carne ancora rosei. Il tutto viene passato a Sami, che è invece il cuoco burkinabè del gruppo, quello che si approccia ai fornelli con maggior soddisfazione. Quando Siè si allontana, viene solitamente seguito da un nugolo di bambini, che gli svolazzano attorno come mosche intorno al miele. Forse si divertono un mondo nel vederlo ammazzare l’animale. Forse, cosa ben più probabile, sanno che qualche pezzo di interiora può sempre capitare nelle loro mani, pronte ad abbrustolirlo su un fuoco ed inghiottirlo con voracità.
Una sera parlavamo con Sami della possibilità di comprare un montone e, a margine, dei vari modi per cucinarlo. Sami era entusiasta dell’idea, gli occhi che quasi luccicavano nel chiarore biancastro della luce al neon, già l’acquolina a riempirgli la bocca. Alla domanda diretta di Dario se era in grado di preparare il montone, Sami ha alzato le spalle facendo segno di diniego con il capo, ma poi, senza esitazione, ha aggiunto: “Ma Siè si!”
Terminiamo le rifiniture interne della seconda casa, che alla nostra partenza diventerà la casa personale di Dario, che il sole non è ancora tramontato. Gli interni sono stati tinteggiati usando entrambi i colori, con una serie di fantasie ad abbellire le finestre e le porte.
Tutto il lavoro odierno, che ha sollevato più di qualche perplessità tra i nostri giovani e tra qualche visitatore, non è in realtà nulla di nuovo per queste terre. Questa cura per i dettagli è parte integrante della cultura di molti popoli africani, ma ora sta per essere perduta. Al museo dell’etnia Lobi a Gaoua si possono ammirare delle bellissime case di terra, fedeli riproduzione delle tecniche costruttive passate. Sono uno spettacolo artistico che ha pochi eguali. Anticamente i burkinabè intonacavano le case esattamente come abbiamo fatto noi per rallentare lo sgretolamento delle pareti di terra. Costruivano muri più spessi per isolare l’abitazione dal caldo infernale delle stagioni estive. Coloravano le pareti e intagliavano le porte per creare un ambiente più piacevole dove vivere e allo stesso tempo per dare libero sfogo alla propria creatività. Purtroppo anche qui, come in tante altre parti del mondo, si tende ad ignorare il passato per seguire un futuro che, sfuggente, corre troppo veloce. Le nuove generazioni stanno perdendo giorno dopo giorno conoscenze molto utili e, come spesso accade, sono lontanissime dal rendersene conto.
Martedì 19 dicembre
L’aria è limpida. Le colline si stagliano nitide in lontananza e sembra quasi di poter contare le foglie dei loro alberi ad una ad una. Il cielo è vestito di un azzurro vivido ed il sole sembra aver abbandonato le albe pallide degli ultimi giorni. Che qualcosa fosse cambiato lo avevo già notato la sera prima, quando, il viso rivolto felice verso il cielo, avevo di nuovo ammirato il luccichio eterno delle stelle.
Dario è partito ieri per Ouaga, in modo da accogliere con una faccia nota i due nuovi tubabu. Fino al loro arrivo non c’è altro da fare che tirarsi su le maniche e lavorare. Gli alberelli che ho piantato non sono per nulla in buone condizioni. Continuo a dar loro acqua due volte al giorno, all’alba ed al tramonto, ma ciò non sembra sortire nessun effetto positivo. La maggior parte delle foglie sono cadute e quelle rimaste hanno perso il verde brillante che le caratterizzava. Il fatto è di per se sconsolante.
Per tirarmi un po’ su il morale mi metto alle dipendenze di Peppino. Mi viene assegnato l’incarico di tracciare i contorni delle nuove abitazioni, ponendo sul perimetro delle fondamenta file di mattoni di terra, quelli che non possono essere utilizzati perché rotti o seriamente danneggiati. Oltre a questo, tra spalare terra, caricare la carriola e trasportare mattoni di pietra, la mattinata corre veloce fino al pranzo, per poi continuare rapida verso il tramonto.
Proprio quando i raggi del sole diventano di colpo più leggeri, vediamo Carolina sbucare in prossimità della pompa. L’evento è accompagnato dalle grida dei bambini che iniziano a correre incontro al mezzo e dal clangore degli attrezzi che vengono lasciati cadere a terra.
Il calore con cui Doriana viene accolta è commovente. Le voci che pronunciano il suo nome sono innumerevoli e creano un giocoso frastuono sormontato solo a tratti dalla voce squillante della stessa catanese, che saluta ad uno ad uno i piccoli bambini conosciuti ad agosto. Vincenzo sorride al momento d’immergersi in questa marea nera, minuscoli puffi scuri che lo circondano da ogni lato, facendosi avanti per aiutarlo a trasportare anche il più piccolo oggetto. L’enorme valigia di metallo che occupa per intero l’ultima fila di posti della macchina è però troppo pesante per loro ed è lo stesso Vinci a caricarsela sulle spalle. Dentro c’è di tutto, da intere forme di caciotta a vari appetitosi salumi, un vero dono paradisiaco per un gruppo di italiani paracadutati in un mondo in cui la qualità del cibo non è presa molto in considerazione.
Il crepuscolo ci sorprende che siamo ancora intenti a sistemare i bagagli nella nuova abitazione, dove l’odore di letame sembra quasi del tutto scomparso. Da stanotte dormiremo tutti un po’ più comodi.
Mercoledì 20 dicembre
Si Irì, così si dice albero di
Karitè in lingua dioula (Si=Karitè,
Irì=albero). Il dioula
è la lingua
franca della regione, quella usata dalle persone di diversa etnia per
comunicare tra loro. In realtà non è la lingua
madre di nessuno di essi.
Assomiglia al bambarà, la lingua dell’omonima
etnia che vive in Mali, ma ormai
è una lingua pansaheliana, diffusa ben al di fuori della
regione che ne ha
visto i natali. Non conosco i motivi e la storia della sua diffusione,
quello
che vedo tutti i giorni è che viene usata da Samì
e Sié, che sono di etnia Gan,
per parlare con Gabriel, che è un Mossi, Issa, che
è un Peul, e Teremì, che è
una Birifor. Il francese, conosciuto solo da una ristretta minoranza di
persone, non è molto usato. Ognuno di loro parla almeno due
lingue, quella
propria dell’etnia d’appartenenza ed il dioula.
Alle mie orecchie sembrano in
realtà tutte uguali, almeno come sonorità, ma io
non faccio testo. Proprio
perché ho una memoria uditiva scadente, almeno se
confrontata con quella
visiva, faccio fatica a relazionarmi con le lingue orali, come sono
tutte
quelle saheliane. Ho passato varie sere in compagnia di Sami allo scopo
d’imparare qualche parola in dioula, tentativi inizialmente
frustrati dalle mie
scarse capacità d’apprendimento. Poi ho trovato la
soluzione: ho iniziato a
trascrivere i suoni su un pezzo di carta, così come
suonavano in italiano.
Leggendoli, invece che ascoltandoli, li ho memorizzati con
facilità. Se un
giorno vi capiterà di trovare un libretto con una
trascrizione di parole in
dioula, non saranno sicuramente uguali alle mie, anche
perché è probabile che
siano basato sul francese. Lasciando comunque da parte le sottigliezze,
diamo
vita alla prima, ed ultima, lezione di dioula per italiani: uno=chelé, due=filà,
tre=savà, quattro=nané, cinque=durù,
sei=worò, sette=wolonfilà, otto=sieghé,
nove=konontò,
dieci=tà; oggi=bi, ieri=senikené,
domani=sené; io=elé, tu=ika,
noi=annù, voi=anlù; sole=tlé,
luna=kalò; albero=irì, alberi=irìcachià
(non
credo esista una regola per il plurale); grazie=anicié,
lavoro=barà,
grazie per il tuo lavoro=anicié
ikabararà.
È possibile che alcune delle parole qui
sopra non siano in
dioula, ma quando si ha un maestro Gan che confonde i due idiomi tutto
è
possibile. Per un’intera settimana ho creduto che
“stella” in dioula si dicesse
bricomberé
(“stelle” si dice bricombé),
per scoprire poi che non era
dioula ma gan. È forte la sensazione che la confusione che
regna nella testa di
Samì non sia sua esclusiva prerogativa, ma un carattere
abbastanza diffuso. Non
sempre i ragazzi si comprendono, o meglio la comprensione non
è immediata ma
avviene solo in seguito ad un evidente sforzo mentale dei due
interlocutori. È
come se in realtà ognuno parlasse in dioula a modo suo,
forse inframmezzandolo
con parole della sua lingua madre oppure arrotondandolo con una
caratteristica
cadenza che ne distorce il suono. Quello che sembra più
spaesato nella
comunicazione è Issà, che però pare
spaesato più o meno sempre, come se si
facesse di canne dalla mattina alla sera. Pensandoci bene,
ciò è quasi vero.
Diciamo che le canne inizia a farsele dal crepuscolo in poi, ma si vede
che gli
bastano anche per il giorno successivo. Simone, vero professionista
della
canna, si sente un po’ in colpa, come se il vizio ad
Issà lo avesse trasmesso
lui. Forse è vero, forse no. Con il nostro amico peul
è tutto un mistero,
iniziando dalla sua stessa età, che nemmeno lui conosce.
È come se la sua
realtà differisse di qualche grado dalla nostra, si
evolvesse su lunghezze
d’onda sensibilmente differenti. Comprendere anche solo una
minima parte di cosa
gli passa per la testa è una sfida ardua. Di per
sé tutti i farafi sono
per noi incomprensibili
(come noi lo siamo per loro, ovviamente), ma Issà vince il
premio
dell’incomprensibilità a mani basse. Lui
è un incompreso anche tra gli stessi
burkinabé. È per questo che sta simpatico a
tutti, che tutti gli vogliamo un
sacco di bene, in primis Simone,
che
ha quasi una devozione nei suo riguardi. È per questo che il
giornalista
umbro-padovano ha scritto ciò che segue:
“Vi racconto una storia... in uno
sperduto e molto rurale
villaggio di un paese povero, emergente, in via di sviluppo, ma pur
sempre
povero, ci sono due agricoltori birifor (etnia locale) che piantano il
loro
mais nei pressi di un abbeveratoio a cui un allevatore peul, altra
etnia
locale, si serve per dare da bere alle sue mucche. Discutono
finché i due
birifor e il peul finiscono per scontrarsi e l’allevatore
ferisce entrambi gli
agricoltori, mandandone uno all’ospedale con un colpo di
machete.
I due allevatori chiamano i loro amici e danno
fuoco ai
tetti in paglia di alcune case peul. Tra queste
c’è anche la casa di Issà, che
in tutta questa storia non c’entrava nulla, ma che ha dovuto
spedire la moglie
e il figlio appena nato dalla suocera, fino a data da destinarsi.
Ecco, se dovessi pensare a qualcuno a cui dedicare
un
particolare augurio per un buon 2007, questi sarebbe Issà,
35 anni (forse, non
sa in che anno è nato precisamente), burkinabé
del villaggio di Loto, la
persona più buona, umile, semplice e istintiva, che ho
incontrato nella mia vita.
Quando la mattina mi sveglio Issà è
già in piedi, vestito, pronto. Mi saluta
col suo francese imparato per sentito dire, mi domanda sempre se ho ben
dormito
e poi stringendo i pugni mi chiede se ho la forza.
Issa può fare tutto: bisogna riparare
una ruota bucata della
bicicletta? Issa conosce l’albero dai cui rami si
può estrarre una colla
naturale e una volta ha visto riparare una ruota. Issa lo sa fare. E se
non lo
sa fare, guarda e poi lo sa fare. Issà conosce le piante da
cui si possono
estrarre corde, legni duri o morbidi. Sa dove trovarle, come tagliarle.
Issà è
anche cacciatore e se non riesce a prendere nulla, sa da chi andare per
fare un
baratto.
Se hai bisogno di un aiuto e chiami
Issà, lui arriva. Ma c’è
anche quando non ti serve a nulla, lui aspetta vicino a te. Aiuta senza
nulla
chiedere in cambio, senza nulla pretendere. Se lui ti chiede una cosa e
tu
gliela passi, Issà ti ringrazia, sempre. Se spostiamo a mano
dei mattoni
facendo una catena di passaggi, Issà ti ringrazia quasi ad
ogni mattone. Forse
qui è l’unico che ha capito quello che stiamo
facendo, forse no, ma lui c’è
ogni mattina.
Quando gli abbiamo detto che lo avremmo pagato
21mila CFA al
mese, più il vitto, circa il doppio di quello che abbiamo
sentito dire che paga
la "cooperazione", Issà ha risposto che potevamo dargli
20mila CFA al
mese e tenerne mille per acquistare il cibo per tutti.
Issà è così,
è la vera Africa, nera, onesta, sudata dal
lavoro sulla propria terra. Quell’Africa che se oggi
c’è da mangiare, mangia,
se non c’è niente pazienza, domani, forse...
Issà non si lava dentro la doccia che ha
costruito, lui si
lava fuori, dietro la doccia. Non si asciuga perchè non ha
mai posseduto un
asciugamano, ma tanto c’è il vento e il sole.
Forse ha solo due vestiti, uno
per lavorare, uno per dopo che si è lavato. Dico forse
perché sono solo due
settimane che gli vedo indossare gli stessi due abiti. Issà
non ha scarpe, solo
un paio di ciabatte, lavora quasi tutto il giorno scalzo. La sera
è fresco, ci
saranno 25 gradi, Issà indossa un cappello di lana.
Quando mangia Issà non butta via niente.
Di un ananas non
butta nemmeno la cima verde, perché domani la
pianterà e le darà acqua. Della
papaia recupera i semi neri, alcuni li pianta, altri li fa seccare
perché
possono servire come medicina per il mal di pancia. Una mattina
è arrivato
succhiando uno stelo di legno. Aveva la tosse. Avevo un po’
di tosse anch’io e
da quel giorno mi ha portato tutte le mattine lo stelo da succhiare.
Ora la
tosse ci è passata.
Non l’ho mai visto triste, forse a volte
è preoccupato, ma
ti ringrazia, piega la schiena e continua. La maggior parte dei giorni
Issà è
semplicemente felice, fa ridere per come parla, per come si muove, per
come
imita di essere al telefono con Doriana in Italia, e ringrazia.
Ecco, se dovessi chiedere un 2007 migliore per
qualcuno,
questi sarebbe certamente Issà. Scrivo da un villaggio
rurale e sperduto del
Burkina Faso, Issà è seduto vicino a me e mi
guarda battere i tasti. Non sa che
sto parlando di lui ma mi sorride e ringrazia.”
La luce penetra potente attraverso la porta,
portando con se
folate d’aria calda che asciugano il sudore ed inaridiscono
la pelle. Siamo
seduti sulle sedie all’interno della seconda casa, pronti a
goderci la lieve
calma pomeridiana che segue sempre il pasto. La seconda casa
è divisa in due
stanze, comunicanti attraverso una porta e due gradini. In quella
più alta,
oltre al materasso dove dormiamo io a Dario, sono accatastati tutti i
bagagli,
appoggiati in ordine sopra una trave di legno. Nella stanza
più bassa, dove di
notte dormono gli altri quattro tubabu,
siamo soliti preparare la tavola per il pranzo, imbandendola di vivande
sempre
più invitanti da quando Doriana si è unita al
gruppo.
Le schiene sono rilassate contro gli schienali non
proprio
comodissimi delle sedie di legno quando Gabriel oscura
l’uscio con la sua
figura e chiede se possiamo accompagnarlo fino alla capanna di Issa.
C’è da
posizionare il tetto, finalmente. Il lavoro, di per se rapido e poco
faticoso,
consiste nell’alzare sopra la testa il tetto di legno e canne
e depositarlo
sopra le mura dell’abitazione, una capanna delle stesse
dimensioni della
nostra. Il tetto non è pesantissimo, anche perché
ancora incompleto, e forse
basterebbe la metà delle persone che si sono radunate nel
piccolo spazio privo
di vegetazione di fronte l’ingresso. Saremo una ventina,
tutta gente che
circola abitualmente per il Centro e che si è data
appuntamento lì sotto il
sole per aiutare Issa o per festeggiare solamente questo particolare
evento
mondano. I bambini ridono, i più grandi sorridono, Doriana
scatta fotografie
che immortalano ogni istante, Issa sembra dirigere i lavori ma in
realtà le sue
indicazioni sono perlopiù sconclusionate. Con il sorriso
sulle labbra e varie
pacche sulle spalle torniamo poi verso il Centro, contenti del lavoro
svolto e
di aver partecipato a questo bel momento di condivisione. Issa ha di
nuovo una
capanna abitabile.
Giovedì 21 dicembre
Provo una forte sensazione di straniamento nel
vedere un mondo con così
poche possibilità. A portata di mano ci sono ben pochi mezzi
con cui
arrangiarsi e la maggior parte di questi ha un costo eccessivo,
irraggiungibile. In una terra dove il massimo che un contadino
può sperare è di
produrre una manciata di cereali per sfamare la sua famiglia per un
intero anno,
mettere da parte qualche soldo è un’impresa quasi
impossibile.
Poi i soldi sono una nostra invenzione, una nostra
idea. In un sistema
che si basa ancora molto sul baratto, il Dio Denaro sovverte le regole
del
gioco, e quando questo succede sono sempre i più deboli a
farne le spese. Issa
non sa nemmeno cosa sia il denaro, forse ne ha sentito parlare qualche
volta da
suo cugino (quello che ha preso a colpi di machete gli agricoltori
birifor) che
possiede abbastanza vacche da poter vivere con un certo agio. Quando si
è
trovato in mano la banconota della prima paga, sul volto si
è delineata
un’espressione tra il curioso, il divertito e lo sbalordito.
Poi è andato a
Diebougou e si è comprato una divisa da basket color oro,
assolutamente trash. Provate voi ad
insegnare ad un
bambino, perché questo è Issa, che i soldi devono
essere risparmiati (almeno
una loro parte) per poter aspirare a traguardi più
importanti che comprare
un’orribile canottiera dorata.
Senza lasciarsi comunque fuorviare da successivi
ostacoli, il primo
problema è che le possibilità di migliorare la
propria condizione sociale sono
poche, addirittura nulle senza un aiuto esterno che crei un volano
economico in
tuo favore. Il concetto di microcredito, sul quale non mi addentro, si
basa
proprio su questa considerazione. Tutto nasce dal denaro, iniziando
dall’educazione scolastica, elemento fondamentale per creare
nel giovane una
consapevolezza di sé e del mondo in cui vive. In un libro di
Alex Zanotelli ho
letto una frase che mi ha profondamente colpito: all’ennesima
persona che
associava la povertà del prete bianco ai derelitti della
baraccopoli di
Korogocho, Padre Zanotelli ha risposto che lui non è povero,
bensì è ricco di
cultura, di studi, di conoscenze; gli altri non hanno nemmeno questo.
Un anno
d’iscrizione alla scuola primaria costa meno di venti euro.
Se non li possiedi
hai già perso il primo treno diretto verso un futuro
migliore, un treno che
difficilmente ripasserà. A Loto chi non va a scuola non
impara il francese, non
impara a leggere e scrivere, non impara a fare di conto. Il futuro
è così
irrimediabilmente segnato, relegato per sempre alla campagna
burkinabè, alla
dura terra che ogni anno che passa sembra più avara, che
sostiene l’uomo solo
lo stretto necessario, per poi qualche volta tradirlo del tutto. Non
puoi
aspirare a nulla di meglio, anche volendolo. Che altre
possibilità può offrire
Loto? Qui non ci sono fabbriche, non ci sono negozi, ci sono solo campi
arsi
dal sole. Non c’è nemmeno l’acqua per
far crescere le piante e costruire un
pozzo costa quasi diecimila euro. Non ci sono i soldi per comprare le
sementi,
per comprare il fertilizzante, per comprare strumenti che ti aiutino a
lavorare
la terra.
Mancano i soldi e mancano le opportunità
di guadagnarne. Ecco perché in
un mondo dove la ricerca di lavoro è continua, la comparsa
di uno sparuto
gruppo di tubabu è prima
di tutto un
evento da sfruttare. Tubabu uguale
soldi, d’altronde lassù a nord il denaro sembra
crescere sugli alberi. Questa è
l’idea che hanno di noi, o forse è
l’idea che noi popoli occidentali abbiamo
voluto trasmettere.
Se ci serve qualcosa basta spargere la voce e in
breve qualcuno arriva,
pronto ad esaudire il nostro desiderio. Come un gruppo di assettati
alla vista
di una fonte d’acqua limpida, si gettano voraci sulle nostre
richieste. Se
vogliamo qualcosa, la inventano, la costruiscono, la trovano o la vanno
a
comprare da qualcun altro, l’importante è riuscire
ad avere un po’ di quei
soldi che tracimano dalle nostre tasche.
Stamattina abbiamo chiesto una scala tradizionale
burkinabè, un unico
ramo in cui vengono intagliati direttamente i gradini. Dopo due ore la
scala è
arrivata, bella e fatta, però non andava bene. Era troppo
corta. Non stupiamoci
più di tanto, siamo in Burkina Faso. Tu dici tre metri e
venti, loro ti
guardano incuriositi, si soffermano a osservare anche la casa (la scala
serve
per arrivare in cima al tetto), fanno un breve cenno di assenso con il
capo e
poi decidono di andare a spanne, l’unico mezzo di misura che
conoscono. Inoltre
il tronco va scovato nella brousse,
non è detto che si riesca a trovare esattamente quello che
cerchi. Se non c’è
come vuoi, vedrai che ti andrà bene quello che viene
recuperato. Dopo le solite
discussioni snervanti del tipo “Ma voi avete
detto… ma ho trovato questo… di
più non posso fare”, abbiamo comprato la scala
corta e ne abbiamo commissionata
un’altra più lunga. La corta la utilizzeremo da
qualche altra parte, forse.
L’idea che la povertà sia solo
morire di fame è fuorviante. A Loto
difficilmente si muore di fame, qualcosa da mangiare, magari non tutti
i
giorni, salta sempre fuori. Nei casi più difficili
interviene direttamente la
comunità, che non abbandona mai nessuno. Di malattie invece
si muore, eccome se
si muore. In Burkina Faso un bambino su dieci muore prima di
raggiungere i
cinque anni. Gabriel ha già visto morire un figlio. Farmaci
e ospedali costano
troppo. La maggior parte della popolazione non può accedere
nemmeno ad uno
sciroppo per la tosse, figuriamoci ad una terapia antimalarica. Molti
dei bambini
che frequentano il Centro, solo per fare un esempio, hanno delle
orribili ernie
ombelicali. Sarebbe sufficiente un semplice intervento chirurgico per
risparmiare loro dolori intestinali, ulcere e peritoniti in alcuni casi
mortali. Ma non ci sono soldi. E non c’è lavoro
per guadagnarli.
Osservo tutto dall’alto, una visione
privilegiata che mi
permette d’ammirare l’area del Centro nella sua
interezza. Dal tetto della
seconda casa la vista sembra spaziare ancora più lontano di
quanto non sia
ormai abituata a fare, come se quei tre metri in più fossero
in realtà svariate
decine, capaci di ridimensionare le proporzioni tra gli umani e le
capanne, tra
le capanne e le colline, tra le colline e la brousse.
Mentre respiro a pieni polmoni questa nuova prospettiva, le
voci dei bambini salgono fino alla terrazza, un canto armonioso guidato
da una
voce ridente, quella di Vincenzo che dirige con fare istrionico un coro
di
piccolo burkinabè. Poco più in là
Peppino e Simone stanno decidendo, ora che i
lavori strutturali dell’Empire Cess
Building sono finiti, come costruire la seduta del gabinetto.
Doriana vaga
tra le costruzioni in compagnia di sporadiche signore con
l’immancabile neonato
appeso alla schiena. Prima dell’arrivo della ragazza catanese
non venivano mai
a trovarci, forse intimorite da un universo esclusivamente maschile. La
sua
voce squillante arriva chiara alle mie orecchie, come le esplosioni di
risa di
Bayo che ogni tanto prevaricano il simpatico coro degli altri bambini.
Dario
passeggia tranquillo e mi sorride ogni volta che alza il capo. Dietro
di lui il
sole scompare veloce oltre la collina, i rossi raggi trasformati in un
caldo
bacio. Il crepuscolo mi avvolge, infondendomi una rigenerante pace
interiore.
Adoro questi attimi.