Centro Ghélawé in Africa

Dal 07 al 30 dicembre 2006

di Carlo Camarotto

Sie
Scala tradizionale
Il tetto di Issa
Al lavoro
Si scherza

Tappa numero 4, Dal 18 al 21 dicembre 2006

Al lavoro
burkina_4

Lunedì 18 dicembre

Nuovamente al lavoro. Dobbiamo concludere le rifiniture interne della seconda casa, in modo da renderla utilizzabile per domani, quando arriveranno altri due catanesi. Doriana è già stata in Burkina Faso ad agosto, mentre Vincenzo è alla sua prima esperienza nel Sahel. Dando per scontato che la capanna non è in grado di ospitare nove persone, dobbiamo rendere vivibile la seconda casa prima del loro arrivo.

In realtà anche la capanna ha bisogno di essere ultimata, visto che ad aprile non c’era stato il tempo di intonacare le pareti interne. Per terminare tutto in giornata dobbiamo impegnarci a fondo, dando vita ad un vero lavoro d’equipe, in cui tutti devono dare il loro contributo. A parte Gabriel, ormai impegnato a tempo pieno con la toilette, tutti si mettono a disposizione di Peppino.

Svuotata velocemente la capanna, inizio il creppisagge in compagnia di Simone e Issa. Utilizzando una mescola poco grassa non siamo obbligati a stenderla in strati sottili, cosa che rende il lavoro più veloce e semplice; purtroppo il maggior quantitativo di sabbia rende la mescola sensibilmente più abrasiva. A farne le spese sono le nostre povere mani, non protette dai guanti che renderebbero il lavoro più sicuro ma anche più grossolano. Ogni tanto qualche piccolo sasso s’impianta a fondo nella carne, una fitta dolorosa che fa salire alla bocca un oceano d’imprecazioni. Per tutelarci, a metà mattinata fondiamo il Primo Sindacato Burkinabè della Mani Lazzariate.

A parte questo non abbiamo comunque molto di cui lamentarci. Il lavoro scorre gaio tra il giusto impegno e delle sane risate, mentre il sole all’esterno porta avanti con calma un lavoro di logorio ai danni degli esseri viventi sprovvisti di riparo. Simone non la smette di inveire scherzosamente contro Issa, autore di un lavoro per nulla certosino, votato alla quantità di movimento del corpo più che alla qualità del lavoro svolto. Io sono, come sempre, lentissimo, ma posso essere soddisfatto dei tratti di muro intonacato. Simone è ormai un esperto e procede veloce e sicuro, noncurante delle gocce di terra che gli imperlano il viso, i capelli, gli occhiali, fino a farlo assomigliare ad un golem.

Peppino, oltre a riempirci in egual misura d’indicazione e d’improperi, cura personalmente la fase di tinteggiatura delle pareti. Polverizzando due tipi di argille, una rossastra ed una gialla, ha ottenuto in precedenza due diverse tonalità di colore, in modo da dare anche un tocco estetico alle due case. Per la tinteggiatura della prima casa decide di usare anche il burro di karitè, in modo da testare la sua capacità di trattenuta del colore. Quello che ne risulta è un liquido marroncino dalla consistenza vellutata e dal profumo dolciastro. A dargli una mano c’è Siè, che spia con attenzione l’architetto per comprendere le esatte movenze da mettere in atto. È commovente la voglia che questo ragazzo impegna nell’apprendimento, una dedizione che traspare nitida dallo sguardo attento ed assorto, dalla concentrazione resa evidente dalle pieghe della fronte. Solo lui riesce a mettere in pratica i dettami di Peppino per eseguire una buona tinteggiatura, fatta di spennellate fluide che necessitano di movimenti elastici del polso. Gli altri è come lo avessero bloccato, un tutt’uno indistinto con l’avambraccio, più adatto a lavori di forza che a quelli di precisione. È evidente che non sono per nulla usi a compiere simili gesti.

Rispetto agli altri Siè riesce a mettere nel lavoro qualcosa in più, una vera attenzione ai minimi particolari, forse una maggiore voglia di emulazione, una genuina voglia d’apprendimento. È stato sufficiente un giorno e qualche rapida indicazione di Dario, per esempio, per imparare a fare un buon caffè (ormai il rito mattutino della moca è suo di diritto, anche se poi di quel liquido nero e fumante non ne beve neppure una goccia, dal gusto decisamente troppo forte ed amaro per il suo palato).

Un paio di serate finora le abbiamo dedicate alla visione di un film. Era un desiderio agognato da Dario che non ne poteva più di starsene da solo in mezzo all’oscura brousse senza l’ombra di uno svago. Simone e Peppino si sono prodigati per esaudire il desiderio del catanese e hanno portato con loro svariati dvd, più di venti film per allietare le ore serali dell’amico. La proiezione di un film su un computer è qualcosa che da queste parti non si è mai vista, un evento ancora più eccezionale di quelli che la nostra vita mette in mostra quotidianamente ai burkinabè che passano per il Centro. I bambini si sono assiepati sulle porte, quasi uno sopra l’altro per vedere lo schermo, silenziosi come non mai, catturati da quelle immagini che mostravano un mondo che non conoscevano, che non avevano neppure immaginato esistesse, di cui probabilmente non comprendevano nulla. Ma dopo un’ora di visione se ne sono andati, non più scossi dalla novità, certamente attratti dal giaciglio notturno che li aspettava al villaggio. La stessa sorte ha colpito Gabriel, Issa e Sami, che a breve si sono addormentati lì dove erano seduti. L’unico a rimanere sveglio è stato Siè, il viso incollato allo schermo, la bocca semiaperta, lo sguardo catturato. Mentre guardavamo “Chiamami Aquila”, con John Belushi, sullo schermo sono apparse le Montagne Rocciose, uno scenario invernale dove la neve ricopriva ogni singolo masso o albero. Ho voltato il capo verso di lui, cercando d’immaginarmi cosa stesse provando in quel momento. Siè era lì, l’unico ad ammirare qualcosa di mai visto, pronto a mettere da parte questa nuova esperienza, pronto a sfruttare con tutte le sue forze questa nuova opportunità.

La stima che ho per questo ragazzo cresce giorno dopo giorno, adornata dal suo sincero sorriso, sempre presente su quel giovane volto scuro. Il soprannome che gli abbiamo affibbiato non ha nulla a che vedere con l’animo gentile che lo caratterizza, ma ha ugualmente preso piede, più come forma scherzosa di rispetto che per altro. Siè è soprannominato “The Killer”.

Ogni tanto, negli ultimi giorni con sempre maggior frequenza, al mattino, in compagnia del ragazzo del pane, arriva qualcuno con l’intenzione di venderci un pollo, una faraona o qualche altro volatile. I primi giorni erano i nostri ragazzi ad andare al mercato per comprare qualche animale da mangiare, in modo da integrare una dieta che, con la fine dei prodotti portati dall’Italia, era diventata povera di proteine. La voce che alcuni tubabu erano interessati ad acquistare animali deve essersi sparsa velocemente nel villaggio, perché a breve sono stati gli stessi a venire da noi, una vendita a domicilio veloce veloce.

Per me la frase “comprare del pollo” significa andare al supermercato e prendere una vaschetta incellofanata di petto di pollo pronto alla cottura. Qui significa comprare un pollo ancora vivo, con lo sguardo vispo ed il corpo ricoperto di penne. Passare da questa fase al mangiare delle succulente cosce di pollo prevede alcuni passaggi che non sono in grado di compiere, primo fra tutti uccidere l’animale. Ma qui al Centro, dove nessun farafi ha scrupoli nel mettere fine all’esistenza di qualsivoglia animale, il compito di trasformare un essere starnazzante a due zampe in un insieme di pezzi di carne pronti alla cottura è immancabilmente assegnato a Siè, il più abile a stroncare una vita per permettere il sano prosieguo di altre ritenute più importanti. Da qui il nome “The Killer”. Quando è l’ora di uccidere l’animale, Siè lo afferra abilmente per le zampe, si allontana dalle costruzione nascondendosi alla vista e ritorna poco dopo con la pentola piena di pezzetti di carne ancora rosei. Il tutto viene passato a Sami, che è invece il cuoco burkinabè del gruppo, quello che si approccia ai fornelli con maggior soddisfazione. Quando Siè si allontana, viene solitamente seguito da un nugolo di bambini, che gli svolazzano attorno come mosche intorno al miele. Forse si divertono un mondo nel vederlo ammazzare l’animale. Forse, cosa ben più probabile, sanno che qualche pezzo di interiora può sempre capitare nelle loro mani, pronte ad abbrustolirlo su un fuoco ed inghiottirlo con voracità.

Una sera parlavamo con Sami della possibilità di comprare un montone e, a margine, dei vari modi per cucinarlo. Sami era entusiasta dell’idea, gli occhi che quasi luccicavano nel chiarore biancastro della luce al neon, già l’acquolina a riempirgli la bocca. Alla domanda diretta di Dario se era in grado di preparare il montone, Sami ha alzato le spalle facendo segno di diniego con il capo, ma poi, senza esitazione, ha aggiunto: “Ma Siè si!”

Terminiamo le rifiniture interne della seconda casa, che alla nostra partenza diventerà la casa personale di Dario, che il sole non è ancora tramontato. Gli interni sono stati tinteggiati usando entrambi i colori, con una serie di fantasie ad abbellire le finestre e le porte.

Tutto il lavoro odierno, che ha sollevato più di qualche perplessità tra i nostri giovani e tra qualche visitatore, non è in realtà nulla di nuovo per queste terre. Questa cura per i dettagli è parte integrante della cultura di molti popoli africani, ma ora sta per essere perduta. Al museo dell’etnia Lobi a Gaoua si possono ammirare delle bellissime case di terra, fedeli riproduzione delle tecniche costruttive passate. Sono uno spettacolo artistico che ha pochi eguali. Anticamente i burkinabè intonacavano le case esattamente come abbiamo fatto noi per rallentare lo sgretolamento delle pareti di terra. Costruivano muri più spessi per isolare l’abitazione dal caldo infernale delle stagioni estive. Coloravano le pareti e intagliavano le porte per creare un ambiente più piacevole dove vivere e allo stesso tempo per dare libero sfogo alla propria creatività. Purtroppo anche qui, come in tante altre parti del mondo, si tende ad ignorare il passato per seguire un futuro che, sfuggente, corre troppo veloce. Le nuove generazioni stanno perdendo giorno dopo giorno conoscenze molto utili e, come spesso accade, sono lontanissime dal rendersene conto.

Martedì 19 dicembre

L’aria è limpida. Le colline si stagliano nitide in lontananza e sembra quasi di poter contare le foglie dei loro alberi ad una ad una. Il cielo è vestito di un azzurro vivido ed il sole sembra aver abbandonato le albe pallide degli ultimi giorni. Che qualcosa fosse cambiato lo avevo già notato la sera prima, quando, il viso rivolto felice verso il cielo, avevo di nuovo ammirato il luccichio eterno delle stelle.

Dario è partito ieri per Ouaga, in modo da accogliere con una faccia nota i due nuovi tubabu. Fino al loro arrivo non c’è altro da fare che tirarsi su le maniche e lavorare. Gli alberelli che ho piantato non sono per nulla in buone condizioni. Continuo a dar loro acqua due volte al giorno, all’alba ed al tramonto, ma ciò non sembra sortire nessun effetto positivo. La maggior parte delle foglie sono cadute e quelle rimaste hanno perso il verde brillante che le caratterizzava. Il fatto è di per se sconsolante.

Per tirarmi un po’ su il morale mi metto alle dipendenze di Peppino. Mi viene assegnato l’incarico di tracciare i contorni delle nuove abitazioni, ponendo sul perimetro delle fondamenta file di mattoni di terra, quelli che non possono essere utilizzati perché rotti o seriamente danneggiati. Oltre a questo, tra spalare terra, caricare la carriola e trasportare mattoni di pietra, la mattinata corre veloce fino al pranzo, per poi continuare rapida verso il tramonto.

Proprio quando i raggi del sole diventano di colpo più leggeri, vediamo Carolina sbucare in prossimità della pompa. L’evento è accompagnato dalle grida dei bambini che iniziano a correre incontro al mezzo e dal clangore degli attrezzi che vengono lasciati cadere a terra.

Il calore con cui Doriana viene accolta è commovente. Le voci che pronunciano il suo nome sono innumerevoli e creano un giocoso frastuono sormontato solo a tratti dalla voce squillante della stessa catanese, che saluta ad uno ad uno i piccoli bambini conosciuti ad agosto. Vincenzo sorride al momento d’immergersi in questa marea nera, minuscoli puffi scuri che lo circondano da ogni lato, facendosi avanti per aiutarlo a trasportare anche il più piccolo oggetto. L’enorme valigia di metallo che occupa per intero l’ultima fila di posti della macchina è però troppo pesante per loro ed è lo stesso Vinci a caricarsela sulle spalle. Dentro c’è di tutto, da intere forme di caciotta a vari appetitosi salumi, un vero dono paradisiaco per un gruppo di italiani paracadutati in un mondo in cui la qualità del cibo non è presa molto in considerazione.

Il crepuscolo ci sorprende che siamo ancora intenti a sistemare i bagagli nella nuova abitazione, dove l’odore di letame sembra quasi del tutto scomparso. Da stanotte dormiremo tutti un po’ più comodi.

Mercoledì 20 dicembre

Si Irì, così si dice albero di Karitè in lingua dioula (Si=Karitè, Irì=albero). Il dioula è la lingua franca della regione, quella usata dalle persone di diversa etnia per comunicare tra loro. In realtà non è la lingua madre di nessuno di essi. Assomiglia al bambarà, la lingua dell’omonima etnia che vive in Mali, ma ormai è una lingua pansaheliana, diffusa ben al di fuori della regione che ne ha visto i natali. Non conosco i motivi e la storia della sua diffusione, quello che vedo tutti i giorni è che viene usata da Samì e Sié, che sono di etnia Gan, per parlare con Gabriel, che è un Mossi, Issa, che è un Peul, e Teremì, che è una Birifor. Il francese, conosciuto solo da una ristretta minoranza di persone, non è molto usato. Ognuno di loro parla almeno due lingue, quella propria dell’etnia d’appartenenza ed il dioula. Alle mie orecchie sembrano in realtà tutte uguali, almeno come sonorità, ma io non faccio testo. Proprio perché ho una memoria uditiva scadente, almeno se confrontata con quella visiva, faccio fatica a relazionarmi con le lingue orali, come sono tutte quelle saheliane. Ho passato varie sere in compagnia di Sami allo scopo d’imparare qualche parola in dioula, tentativi inizialmente frustrati dalle mie scarse capacità d’apprendimento. Poi ho trovato la soluzione: ho iniziato a trascrivere i suoni su un pezzo di carta, così come suonavano in italiano. Leggendoli, invece che ascoltandoli, li ho memorizzati con facilità. Se un giorno vi capiterà di trovare un libretto con una trascrizione di parole in dioula, non saranno sicuramente uguali alle mie, anche perché è probabile che siano basato sul francese. Lasciando comunque da parte le sottigliezze, diamo vita alla prima, ed ultima, lezione di dioula per italiani: uno=chelé, due=filà, tre=savà, quattro=nané, cinque=durù, sei=worò, sette=wolonfilà, otto=sieghé, nove=konontò, dieci=; oggi=bi, ieri=senikené, domani=sené; io=elé, tu=ika, noi=annù, voi=anlù; sole=tlé, luna=kalò; albero=irì, alberi=irìcachià (non credo esista una regola per il plurale); grazie=anicié, lavoro=barà, grazie per il tuo lavoro=anicié ikabararà.

È possibile che alcune delle parole qui sopra non siano in dioula, ma quando si ha un maestro Gan che confonde i due idiomi tutto è possibile. Per un’intera settimana ho creduto che “stella” in dioula si dicesse bricomberé (“stelle” si dice bricombé), per scoprire poi che non era dioula ma gan. È forte la sensazione che la confusione che regna nella testa di Samì non sia sua esclusiva prerogativa, ma un carattere abbastanza diffuso. Non sempre i ragazzi si comprendono, o meglio la comprensione non è immediata ma avviene solo in seguito ad un evidente sforzo mentale dei due interlocutori. È come se in realtà ognuno parlasse in dioula a modo suo, forse inframmezzandolo con parole della sua lingua madre oppure arrotondandolo con una caratteristica cadenza che ne distorce il suono. Quello che sembra più spaesato nella comunicazione è Issà, che però pare spaesato più o meno sempre, come se si facesse di canne dalla mattina alla sera. Pensandoci bene, ciò è quasi vero. Diciamo che le canne inizia a farsele dal crepuscolo in poi, ma si vede che gli bastano anche per il giorno successivo. Simone, vero professionista della canna, si sente un po’ in colpa, come se il vizio ad Issà lo avesse trasmesso lui. Forse è vero, forse no. Con il nostro amico peul è tutto un mistero, iniziando dalla sua stessa età, che nemmeno lui conosce. È come se la sua realtà differisse di qualche grado dalla nostra, si evolvesse su lunghezze d’onda sensibilmente differenti. Comprendere anche solo una minima parte di cosa gli passa per la testa è una sfida ardua. Di per sé tutti i farafi sono per noi incomprensibili (come noi lo siamo per loro, ovviamente), ma Issà vince il premio dell’incomprensibilità a mani basse. Lui è un incompreso anche tra gli stessi burkinabé. È per questo che sta simpatico a tutti, che tutti gli vogliamo un sacco di bene, in primis Simone, che ha quasi una devozione nei suo riguardi. È per questo che il giornalista umbro-padovano ha scritto ciò che segue:

“Vi racconto una storia... in uno sperduto e molto rurale villaggio di un paese povero, emergente, in via di sviluppo, ma pur sempre povero, ci sono due agricoltori birifor (etnia locale) che piantano il loro mais nei pressi di un abbeveratoio a cui un allevatore peul, altra etnia locale, si serve per dare da bere alle sue mucche. Discutono finché i due birifor e il peul finiscono per scontrarsi e l’allevatore ferisce entrambi gli agricoltori, mandandone uno all’ospedale con un colpo di machete.

I due allevatori chiamano i loro amici e danno fuoco ai tetti in paglia di alcune case peul. Tra queste c’è anche la casa di Issà, che in tutta questa storia non c’entrava nulla, ma che ha dovuto spedire la moglie e il figlio appena nato dalla suocera, fino a data da destinarsi.

Ecco, se dovessi pensare a qualcuno a cui dedicare un particolare augurio per un buon 2007, questi sarebbe Issà, 35 anni (forse, non sa in che anno è nato precisamente), burkinabé del villaggio di Loto, la persona più buona, umile, semplice e istintiva, che ho incontrato nella mia vita. Quando la mattina mi sveglio Issà è già in piedi, vestito, pronto. Mi saluta col suo francese imparato per sentito dire, mi domanda sempre se ho ben dormito e poi stringendo i pugni mi chiede se ho la forza.

Issa può fare tutto: bisogna riparare una ruota bucata della bicicletta? Issa conosce l’albero dai cui rami si può estrarre una colla naturale e una volta ha visto riparare una ruota. Issa lo sa fare. E se non lo sa fare, guarda e poi lo sa fare. Issà conosce le piante da cui si possono estrarre corde, legni duri o morbidi. Sa dove trovarle, come tagliarle. Issà è anche cacciatore e se non riesce a prendere nulla, sa da chi andare per fare un baratto.

Se hai bisogno di un aiuto e chiami Issà, lui arriva. Ma c’è anche quando non ti serve a nulla, lui aspetta vicino a te. Aiuta senza nulla chiedere in cambio, senza nulla pretendere. Se lui ti chiede una cosa e tu gliela passi, Issà ti ringrazia, sempre. Se spostiamo a mano dei mattoni facendo una catena di passaggi, Issà ti ringrazia quasi ad ogni mattone. Forse qui è l’unico che ha capito quello che stiamo facendo, forse no, ma lui c’è ogni mattina.

Quando gli abbiamo detto che lo avremmo pagato 21mila CFA al mese, più il vitto, circa il doppio di quello che abbiamo sentito dire che paga la "cooperazione", Issà ha risposto che potevamo dargli 20mila CFA al mese e tenerne mille per acquistare il cibo per tutti.

Issà è così, è la vera Africa, nera, onesta, sudata dal lavoro sulla propria terra. Quell’Africa che se oggi c’è da mangiare, mangia, se non c’è niente pazienza, domani, forse...

Issà non si lava dentro la doccia che ha costruito, lui si lava fuori, dietro la doccia. Non si asciuga perchè non ha mai posseduto un asciugamano, ma tanto c’è il vento e il sole. Forse ha solo due vestiti, uno per lavorare, uno per dopo che si è lavato. Dico forse perché sono solo due settimane che gli vedo indossare gli stessi due abiti. Issà non ha scarpe, solo un paio di ciabatte, lavora quasi tutto il giorno scalzo. La sera è fresco, ci saranno 25 gradi, Issà indossa un cappello di lana.

Quando mangia Issà non butta via niente. Di un ananas non butta nemmeno la cima verde, perché domani la pianterà e le darà acqua. Della papaia recupera i semi neri, alcuni li pianta, altri li fa seccare perché possono servire come medicina per il mal di pancia. Una mattina è arrivato succhiando uno stelo di legno. Aveva la tosse. Avevo un po’ di tosse anch’io e da quel giorno mi ha portato tutte le mattine lo stelo da succhiare. Ora la tosse ci è passata.

Non l’ho mai visto triste, forse a volte è preoccupato, ma ti ringrazia, piega la schiena e continua. La maggior parte dei giorni Issà è semplicemente felice, fa ridere per come parla, per come si muove, per come imita di essere al telefono con Doriana in Italia, e ringrazia.

Ecco, se dovessi chiedere un 2007 migliore per qualcuno, questi sarebbe certamente Issà. Scrivo da un villaggio rurale e sperduto del Burkina Faso, Issà è seduto vicino a me e mi guarda battere i tasti. Non sa che sto parlando di lui ma mi sorride e ringrazia.”

 

La luce penetra potente attraverso la porta, portando con se folate d’aria calda che asciugano il sudore ed inaridiscono la pelle. Siamo seduti sulle sedie all’interno della seconda casa, pronti a goderci la lieve calma pomeridiana che segue sempre il pasto. La seconda casa è divisa in due stanze, comunicanti attraverso una porta e due gradini. In quella più alta, oltre al materasso dove dormiamo io a Dario, sono accatastati tutti i bagagli, appoggiati in ordine sopra una trave di legno. Nella stanza più bassa, dove di notte dormono gli altri quattro tubabu, siamo soliti preparare la tavola per il pranzo, imbandendola di vivande sempre più invitanti da quando Doriana si è unita al gruppo.

Le schiene sono rilassate contro gli schienali non proprio comodissimi delle sedie di legno quando Gabriel oscura l’uscio con la sua figura e chiede se possiamo accompagnarlo fino alla capanna di Issa. C’è da posizionare il tetto, finalmente. Il lavoro, di per se rapido e poco faticoso, consiste nell’alzare sopra la testa il tetto di legno e canne e depositarlo sopra le mura dell’abitazione, una capanna delle stesse dimensioni della nostra. Il tetto non è pesantissimo, anche perché ancora incompleto, e forse basterebbe la metà delle persone che si sono radunate nel piccolo spazio privo di vegetazione di fronte l’ingresso. Saremo una ventina, tutta gente che circola abitualmente per il Centro e che si è data appuntamento lì sotto il sole per aiutare Issa o per festeggiare solamente questo particolare evento mondano. I bambini ridono, i più grandi sorridono, Doriana scatta fotografie che immortalano ogni istante, Issa sembra dirigere i lavori ma in realtà le sue indicazioni sono perlopiù sconclusionate. Con il sorriso sulle labbra e varie pacche sulle spalle torniamo poi verso il Centro, contenti del lavoro svolto e di aver partecipato a questo bel momento di condivisione. Issa ha di nuovo una capanna abitabile.

Giovedì 21 dicembre

Provo una forte sensazione di straniamento nel vedere un mondo con così poche possibilità. A portata di mano ci sono ben pochi mezzi con cui arrangiarsi e la maggior parte di questi ha un costo eccessivo, irraggiungibile. In una terra dove il massimo che un contadino può sperare è di produrre una manciata di cereali per sfamare la sua famiglia per un intero anno, mettere da parte qualche soldo è un’impresa quasi impossibile.

Poi i soldi sono una nostra invenzione, una nostra idea. In un sistema che si basa ancora molto sul baratto, il Dio Denaro sovverte le regole del gioco, e quando questo succede sono sempre i più deboli a farne le spese. Issa non sa nemmeno cosa sia il denaro, forse ne ha sentito parlare qualche volta da suo cugino (quello che ha preso a colpi di machete gli agricoltori birifor) che possiede abbastanza vacche da poter vivere con un certo agio. Quando si è trovato in mano la banconota della prima paga, sul volto si è delineata un’espressione tra il curioso, il divertito e lo sbalordito. Poi è andato a Diebougou e si è comprato una divisa da basket color oro, assolutamente trash. Provate voi ad insegnare ad un bambino, perché questo è Issa, che i soldi devono essere risparmiati (almeno una loro parte) per poter aspirare a traguardi più importanti che comprare un’orribile canottiera dorata.

Senza lasciarsi comunque fuorviare da successivi ostacoli, il primo problema è che le possibilità di migliorare la propria condizione sociale sono poche, addirittura nulle senza un aiuto esterno che crei un volano economico in tuo favore. Il concetto di microcredito, sul quale non mi addentro, si basa proprio su questa considerazione. Tutto nasce dal denaro, iniziando dall’educazione scolastica, elemento fondamentale per creare nel giovane una consapevolezza di sé e del mondo in cui vive. In un libro di Alex Zanotelli ho letto una frase che mi ha profondamente colpito: all’ennesima persona che associava la povertà del prete bianco ai derelitti della baraccopoli di Korogocho, Padre Zanotelli ha risposto che lui non è povero, bensì è ricco di cultura, di studi, di conoscenze; gli altri non hanno nemmeno questo. Un anno d’iscrizione alla scuola primaria costa meno di venti euro. Se non li possiedi hai già perso il primo treno diretto verso un futuro migliore, un treno che difficilmente ripasserà. A Loto chi non va a scuola non impara il francese, non impara a leggere e scrivere, non impara a fare di conto. Il futuro è così irrimediabilmente segnato, relegato per sempre alla campagna burkinabè, alla dura terra che ogni anno che passa sembra più avara, che sostiene l’uomo solo lo stretto necessario, per poi qualche volta tradirlo del tutto. Non puoi aspirare a nulla di meglio, anche volendolo. Che altre possibilità può offrire Loto? Qui non ci sono fabbriche, non ci sono negozi, ci sono solo campi arsi dal sole. Non c’è nemmeno l’acqua per far crescere le piante e costruire un pozzo costa quasi diecimila euro. Non ci sono i soldi per comprare le sementi, per comprare il fertilizzante, per comprare strumenti che ti aiutino a lavorare la terra.

Mancano i soldi e mancano le opportunità di guadagnarne. Ecco perché in un mondo dove la ricerca di lavoro è continua, la comparsa di uno sparuto gruppo di tubabu è prima di tutto un evento da sfruttare. Tubabu uguale soldi, d’altronde lassù a nord il denaro sembra crescere sugli alberi. Questa è l’idea che hanno di noi, o forse è l’idea che noi popoli occidentali abbiamo voluto trasmettere.

Se ci serve qualcosa basta spargere la voce e in breve qualcuno arriva, pronto ad esaudire il nostro desiderio. Come un gruppo di assettati alla vista di una fonte d’acqua limpida, si gettano voraci sulle nostre richieste. Se vogliamo qualcosa, la inventano, la costruiscono, la trovano o la vanno a comprare da qualcun altro, l’importante è riuscire ad avere un po’ di quei soldi che tracimano dalle nostre tasche.

Stamattina abbiamo chiesto una scala tradizionale burkinabè, un unico ramo in cui vengono intagliati direttamente i gradini. Dopo due ore la scala è arrivata, bella e fatta, però non andava bene. Era troppo corta. Non stupiamoci più di tanto, siamo in Burkina Faso. Tu dici tre metri e venti, loro ti guardano incuriositi, si soffermano a osservare anche la casa (la scala serve per arrivare in cima al tetto), fanno un breve cenno di assenso con il capo e poi decidono di andare a spanne, l’unico mezzo di misura che conoscono. Inoltre il tronco va scovato nella brousse, non è detto che si riesca a trovare esattamente quello che cerchi. Se non c’è come vuoi, vedrai che ti andrà bene quello che viene recuperato. Dopo le solite discussioni snervanti del tipo “Ma voi avete detto… ma ho trovato questo… di più non posso fare”, abbiamo comprato la scala corta e ne abbiamo commissionata un’altra più lunga. La corta la utilizzeremo da qualche altra parte, forse.

L’idea che la povertà sia solo morire di fame è fuorviante. A Loto difficilmente si muore di fame, qualcosa da mangiare, magari non tutti i giorni, salta sempre fuori. Nei casi più difficili interviene direttamente la comunità, che non abbandona mai nessuno. Di malattie invece si muore, eccome se si muore. In Burkina Faso un bambino su dieci muore prima di raggiungere i cinque anni. Gabriel ha già visto morire un figlio. Farmaci e ospedali costano troppo. La maggior parte della popolazione non può accedere nemmeno ad uno sciroppo per la tosse, figuriamoci ad una terapia antimalarica. Molti dei bambini che frequentano il Centro, solo per fare un esempio, hanno delle orribili ernie ombelicali. Sarebbe sufficiente un semplice intervento chirurgico per risparmiare loro dolori intestinali, ulcere e peritoniti in alcuni casi mortali. Ma non ci sono soldi. E non c’è lavoro per guadagnarli.

 

Osservo tutto dall’alto, una visione privilegiata che mi permette d’ammirare l’area del Centro nella sua interezza. Dal tetto della seconda casa la vista sembra spaziare ancora più lontano di quanto non sia ormai abituata a fare, come se quei tre metri in più fossero in realtà svariate decine, capaci di ridimensionare le proporzioni tra gli umani e le capanne, tra le capanne e le colline, tra le colline e la brousse. Mentre respiro a pieni polmoni questa nuova prospettiva, le voci dei bambini salgono fino alla terrazza, un canto armonioso guidato da una voce ridente, quella di Vincenzo che dirige con fare istrionico un coro di piccolo burkinabè. Poco più in là Peppino e Simone stanno decidendo, ora che i lavori strutturali dell’Empire Cess Building sono finiti, come costruire la seduta del gabinetto. Doriana vaga tra le costruzioni in compagnia di sporadiche signore con l’immancabile neonato appeso alla schiena. Prima dell’arrivo della ragazza catanese non venivano mai a trovarci, forse intimorite da un universo esclusivamente maschile. La sua voce squillante arriva chiara alle mie orecchie, come le esplosioni di risa di Bayo che ogni tanto prevaricano il simpatico coro degli altri bambini. Dario passeggia tranquillo e mi sorride ogni volta che alza il capo. Dietro di lui il sole scompare veloce oltre la collina, i rossi raggi trasformati in un caldo bacio. Il crepuscolo mi avvolge, infondendomi una rigenerante pace interiore. Adoro questi attimi.